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Concretezza e Normalitą
Di Lorenza Perfori - 25/08/2011 - Cultura e religione - 1289 visite - 0 commenti



“Trovo immancabilmente qualcuno che mi propone:

- Vorrei farti conoscere un tipo eccezionale…

Rispondo:

- No, grazie. Preferirei, piuttosto, incontrare un individuo normale. Non ne hai per caso uno a portata di mano?

Quello, manco a dire, rimane male.

E io rimango deluso.

 

Il palcoscenico è totalmente occupato da protagonisti, primattori, che sgomitano per stare in primo piano. Non si riesce più a reclutare individui disposti a recitare la parte modesta – ma pur sempre esaltante – di semplici uomini.

Ho l’impressione che il mondo, oggi, sia popolato quasi esclusivamente da gente straordinaria, individui fuori dal comune, personaggi eccezionali, uomini importanti (o che si ritengono tali).

Si stanno assottigliando paurosamente le fila della gente comune. E anche se sopravvive qualche raro esemplare, non desta alcun interesse.

Insomma, l’uomo normale appartiene a una razza minacciata di estinzione.

Occorre, perciò, salvarlo. Cominciando con l’attribuirgli tutto il valore che merita […]

 

Tutti che parlano o recitano o urlano sopra le righe.

Tutti che fanno “carriere folgoranti”.

Tutti che pretendono essere trasgressivi, insolenti, stravaganti, adottando comportamenti bizzarri e un linguaggio spregiudicato, con l’intenzione evidente di sbalordire, scandalizzare, sottolineare la propria diversità, il proprio non conformismo.

Ritengo che, a questo punto, se uno volesse essere veramente non conformista, trasgressivo, dovrebbe piuttosto recuperare un linguaggio decente, ripulito accuratamente da tutte le parolacce, scrostato dalle oscenità. Farebbe colpo. […]

 

Voglia di normalità.

Ossia, voglia di una fede talmente “miracolosa” nella sua normalità da non avere bisogno del supporto del miracolistico. […]

Voglia di normalità, ossia voglia di incontrare delle persone più che dei personaggi.

Nostalgia delle belle maniere, del rispetto per gli altri.

Attesa di un “buongiorno che voglia dire veramente buongiorno”.

Voglia di pulizia, decenza, discrezione, equilibrio, moderazione, senso della misura e – perché no – buonsenso.

Gente che si mette disciplinatamente in coda, abbassa il volume della voce e della televisione, si accorge che esistono anche gli altri, risponde a una lettera, chiede scusa, riconosce i propri errori.

Incocciare qualcuno che annunci, semplicemente:

- Oggi ho fatto meglio che potevo il mio mestiere di uomo. Niente altro. La cosa più normale e straordinaria al tempo stesso.

Di individui famosi ce ne sono anche troppi in circolazione. E finiscono per intralciare il traffico, provocando ingorghi fastidiosi.

 

Bisogna ristabilire un “traffico scorrevole”, aperto a gente qualunque che non ha la pretesa di possedere un volto “noto”, ma si accontenta di avere una faccia passabile, riconoscibile per certi lineamenti inconfondibili e rassicuranti: dignità, modestia, lealtà, saggezza, bontà, gentilezza, intelligenza, trasparenza, delicatezza.

Si crea un interesse morboso attorno alle “celebrità”.

Io vorrei “celebrare” le persone che non contano, ma riescono a vivere in maniera convincente. […]

A me interessano quelli che riescono a tenere i piedi ben appoggiati sul terreno della concretezza e lasciano orme leggere, quasi impercettibili, ma utili a ritrovare un cammino decoroso.

 

Nemica del ritorno alla normalità è indubbiamente una certa enfasi, magniloquenza, anche in campo religioso.

Oggi si parla con evidente compiacimento di “cristiani impegnati”. Quasi lasciando supporre che ci siano quelli non impegnati.

Ma se uno è “disimpegnato”, “non responsabile”, “dimissionario”, non è nemmeno cristiano.

Dove non c’è impegno cristiano, non c’è neppure cristianesimo. C’è semplicemente un nome in più segnato sul registro dei battesimi.

Tuttavia ho l’impressione che si scantoni vistosamente nella retorica dell’impegno.

La retorica, in fondo, è forzatura, esagerazione (e certe parole possiedono un potere “gonfiante” che desta preoccupazione). In questo caso tende a distinguere i cristiani in due classi: quelli veri, che esercitano un ministero o assolvono un compito specifico all’interno della comunità, e gli altri di seconda categoria.

Insomma, il laico impegnato da una parte, e il semplice cristiano dall’altra.

Non mi trovo molto d’accordo con tale classificazione, e spiego perché con un esempio che mi tocca da vicino.

 

In casa io avevo una laica impegnata e un cristiano comune. Mia madre, oltre a tirare una carretta boia (un paio di mestieri supplementari per mantenermi agli studi), era iscritta a una mezza dozzina di associazioni, tutte “impegnate” a svolgere forme di apostolato e carità.

Personalmente, poi, dopo una giornata di lavoro sconciante, era capace di trascorrere la notte – gratis, s’intende – ad assistere all’ospedale un malato in difficoltà.

Si occupava delle vocazioni (esclusa la mia), lavorava per la diffusione della buona stampa (mai dei miei libri, comunque). E non so a quante altre cose si dedicasse con spirito autenticamente missionario e a costo di sacrifici inenarrabili.

Mio padre, invece, risultava allergico a ogni forma di associazionismo. Manco a parlare di iscriversi a un movimento, a un gruppo, di partecipare a un’assemblea, nonostante le sollecitazioni e i rimbrotti della consorte.

Lui faceva la guardia comunale. E, la sera, si accollava un altro lavoro, sempre a causa dei miei studi.

Era assorbito completamente, con un’onestà e una limpidezza senza pari, nel proprio mestiere. Per lui era più che sufficiente. Ma forniva una sua interpretazione particolarissima. E che cosa non ci metteva dentro, segretamente…

 

Conversava amabilmente con tutti. Si guadagnava la fiducia di molti. Ascoltava problemi, talvolta drammi. Captava difficoltà. Si rendeva utile, come poteva, nell’ambito del suo lavoro. Sbrigava pratiche al posto di gente che non aveva troppa familiarità con le leggi. Scriveva lettere per chi era più in confidenza con la vanga che con la penna.

Soprattutto ricuciva lacerazioni, contribuiva a dissipare odi e rancori, che magari persistevano da tempo immemorabile, quasi sempre a causa di un’eredità discussa, di un fazzoletto di terra conteso tra fratelli.

Era uomo di pace, che svolgeva opera di riconciliazione dove c’erano contrasti accaniti, dissapori, rancori, ostilità tenaci come l’acciaio.

In ciò era aiutato dal suo carattere mansueto, dallo sguardo sereno, dalla persona che emanava un senso benefico di dolcezza.

 

Svolgeva la sua opera comune (era guardia comunale no?), non impegnata nel senso abituale del termine, clandestinamente (certe cose sono venuto a saperle parecchi anni dopo, grazie alle confidenze degli interessati, e dei beneficiati), senza darsi arie di persona sulle cui spalle sta in bilico la sorte del mondo.

Gli avessi domandato se si sentisse un cristiano impegnato o no, si sarebbe messo a ridere (o a sorridere, che era il suo modo abituale di ridere). Non si era mai posto il problema, e nemmeno lo considerava un problema.

 

Mio padre possedeva, spiccato, il senso del pudore. Specialmente quando si trattava di parole del lessico cristiano. Non adoperava mai i paroloni. Né permetteva che andassero in giro indossando il vestito sconveniente della retorica.

Si accontentava di vivere, essere, porgere la mano.

Si occupava degli altri senza darlo a vedere, senza uscire dall’ambito del suo lavoro, rifiutando – con dolcezza, ma decisamente – ogni etichetta, usando pochissime parole comuni.

 

Ecco, io non riesco a collocare mia madre e mio padre, rigidamente, in una delle categorie cui ho accennato.

Rifacendomi in particolare allo stile inconfondibile di mio padre, resto convinto che anche un semplice laico, un cristiano comune “di costumi difficili” (come direbbe Guareschi), senza un impegno o un incarico apostolico o comunitario specifico, sia a pieno titolo missionario, operaio del regno di Dio.

Certe esistenze, che si svolgono nella quotidianità, nella ferialità, nelle occupazioni banali, lontano dai riflettori e dai microfoni e dai taccuini dei giornalisti, sono annuncio del Regno.

Certe persone, per il semplice fatto di essere, portare in silenzio la loro croce di ogni giorno, vivere nella fedeltà più costosa, tenere il proprio posto con dignità, lasciare dove camminano tracce di… pulito, rappresentano un segno luminoso per tutti.

Proprio coloro che non hanno alcuna pretesa di brillare risultano preziosi fornitori di luce.

 

In nome di mio padre, difendo il cristiano comune, feriale, quotidiano, operaio nascosto della casa del Regno (anche se lui non se ne rende conto), che compie piccole azioni, produce minuscoli gesti, adopera parole dimesse, tenendosi alla larga da un linguaggio compiaciuto e “impegnato”.

Forse il regno di Dio ha bisogno di individui laboriosi, che oltre a non risultare sprovvisti di amore, sono abbondantemente provvisti di silenzio. E soprattutto di pudore.

Quando sento definire qualcuno come “vero cristiano”, penso istintivamente a mio padre. E mi accorgo che, secondo il suo stile, quel “vero” è di troppo.

Dicono che il grigio sia il colore della quotidianità.

Non ne sono troppo sicuro.

Comunque, ammesso sia il grigio, si tratta di uno splendido colore. […]

 

(Alessandro Pronzato, Alla ricerca delle virtù perdute, Gribaudi, 3° ed. settembre 2000, pp. 136-141)





 
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