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Solidarietą: una parola ambigua
Di Francesco Agnoli - 23/08/2011 - Cultura e religione - 1205 visite - 0 commenti

La parola “solidarietà” è ambigua. La si sente usare troppo spesso a sproposito. Perde, dunque, la sua bellezza, e il suo significato. Arrivato in un paesello del Veneto ho visto sul municipio la scritta: “Paese solidale”. Cosa significa?

Che d’incanto, magari cambiato sindaco, un paese diventa, in massa, capace di uno sguardo buono sul prossimo? Che la solidarietà è una questione del municipio? Che essa consiste in leggi proposte da qualcuno e calate dall’alto? Una volta eletto Giuliano Pisapia ha dichiarato che Milano sarebbe divenuta “solidale”. Qualcuno ha esultato, “perché solidarietà è una parola cristiana”…

No, a me sembra che col significato che spesso assume oggi, solidarietà sia ormai una parola pagana, e un imbroglio. Perché pagana? Perché una parola cristiana per indicare l’amore verso il prossimo c’è già, ed è Carità. Nel vangelo la Carità verso i nostri simili è vincolata alla Carità verso Dio: impossibile amare veramente gli uomini, i singoli uomini, senza attingere da Dio questa capacità di amare. Impossibile, poi, amare Dio, senza amare il prossimo.

Lo diceva molto bene Dostoevskj allorché, riferendosi senza dubbio alle filosofie dei suoi tempi, ricordava che amare l’Umanità, amare gli uomini, in generale, come categoria astratta, è facile, a parole e da lontano; molto più difficile amare colui che ci sta vicino, affianco, gomito a gomito. La carità cristiana dunque si nutre e si alimenta dell’amore di Dio: perché è solo col suo esempio e con la sua Grazia, che vinciamo davvero il nostro naturale istinto all’egoismo e alla cattiveria.

La Carità umana, dunque, è qualcosa di verticale e di orizzontale: riceve dall’alto e poi, in qualche modo, ridistribuisce; partecipa di un amore infinito, e poi, in qualche misura, secondo il limite di chi lo vive, lo rende presente nel quotidiano. Perché la parola “solidarietà” rischia di essere anche un imbroglio? Perché svincolata da Dio, dal nostro limite, può divenire qualcosa di assolutamente astratto. La solidarietà di solito è predicata, più che praticata; è verso gruppi di persone (i poveri, gli immigrati, i paesi del Terzo Mondo), più che verso il prossimo; è proposta come obbligo di un partito o dello Stato, più che come dovere personale. “Dobbiamo accogliere gli immigrati”, si dice; dobbiamo fare questo e quello, si afferma.

Ma è spesso un dovere collettivo, e c’è spesso una istituzione, a cui si affida il compito di risolvere il problema del momento. Qui entrano in ballo i cosiddetti principi non negoziabili, quelli, cioè, sui quali non si può transigere. Un ascoltatore di radio Maria, mi chiedeva recentemente: “ma perché la Chiesa, invece di parlare sempre dei principi non negoziabili, non si occupa di cose molto più urgenti, come la povertà, la solidarietà ecc?

Perché questa domanda, in un ascoltatore cattolico? Il primo motivo è evidente: perché l’espressione “non negoziabile” ci infastidisce. Tutto è negoziabile, quando è l’uomo la misura di tutte le cose e quando il concetto di peccato ha perso consistenza. Il secondo motivo della domanda è l’aver svilito la concretezza della carità cristiana, confusa con la solidarietà come utopia e come ideologia; come risoluzione, al più, di problemi esclusivamente materiali.

La Chiesa, mi sono permesso di rispondere, predica i principi non negoziabili perché sono proprio loro l’antefatto, imprescindibile, di una vera solidarietà. L’uomo nasce in famiglia, cresce in famiglia, e, una volta adulto, crea una propria famiglia. Dunque non c’è esperienza umana più concreta, più tangibile, più incarnata. Come può allora un cristiano dirsi “solidale”, se non è disposto ad accogliere il figlio che gli nasce? Se decide di ucciderlo, perché non è giunto al momento voluto, o perché non è sano?

La prima solidarietà è appunto il servire e l’accogliere la vita che ci è stata donata e affidata. E’ riconoscerla come un tesoro prezioso. Faccio fatica, personalmente, ad immaginare un uomo veramente solidale, che non sa esserlo verso suo figlio. Ritengo difficile che un uomo possa amare veramente un estraneo, se non sa fare altrettanto tutti i giorni, quando torna nella sua casa. Principio non negoziabile è anche, oltre al rispetto della vita, la sacralità del matrimonio: dove si può sperimentare più appieno il rispetto, la pazienza, la sopportazione, l’affetto, se non nei confronti del proprio coniuge?

E come farà il marito che tradisce la moglie, che non sa perdonarla, che non sa chiederle perdono, ad essere solidale, fuori, nella vita di tutti i giorni, con gli altri? Gentile, forse; generoso, anche, occasionalmente; ma saprà dare la vita “per i suoi amici”, come Cristo? Saprà amare persino i sui nemici, come vuole il Vangelo, lui che non lo fa neppure in casa sua? Saprà rinunciare non al superfluo, ma ben di più, per gli altri, se nella vita di tutti i giorni rigetta l’abnegazione, il sacrificio, la croce? Si potrebbe continuare, ma a me sembra, in conclusione, che l’idea di solidarietà promossa spesso, oggi, da molti “cattolici”, non corrisponda alla carità di Cristo, ma ad una sua scolorita immagine di cartapesta, ad una etichetta sovrapposta ad un contenitore vuoto. Il Foglio, 18 agosto 2011

 
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