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Quella proposta di seguito è una sintesi degli appunti da me presi durante l’intervento di Renato Farina (nella foto, a destra di don Giussani) che, su invito dell’associazione Libertà e Persona e della Compagnia delle Opere, ha presentato a Trento , in un incontro pubblico nella sala della Regione, il suo ultimo libro: “Don Giussani. Vita di un amico” (Piemme).
Le mie sono note da lui non riviste, che risentono di tutta l’imperfezione di chi ha semplicemente cercato di fissare i passaggi più significativi del discorso ascoltato per poterli poi rileggere. Per rileggerli li ho trascritti, preferendo così questa formula narrativa – molto meno fedele e difettosa di una registrazione meccanica – rispetto a quella più classica della cronaca giornalistica, perché mi sembra più viva e capace di restituire meglio l’intensità dell’impressione provata ascoltando questa testimonianza. Mi scuso quindi se non ho riportato alcune frasi o passaggi interessanti.
Domanda
“Perché hai scritto questo libro su don Giussani proprio in questo periodo particolarmente difficile della tua vita?”
Risposta
“Trovarmi qui tra voi a raccontare il libro che ho scritto su don Giussani è per me un modo di essere afferrato di nuovo dalla Misericordia in cui solo consiste il significato della nostra vita. E’ vero, gli ultimi dieci mesi sono stati per me molto pesanti. Ma quando hai perso tutto e gli altri ti hanno portato via tutto – non importa se ingiustamente o no, anche se io penso ingiustamente – trovi molto più di prima quello che per te veramente conta: la Misericordia come struttura della realtà. Una misericordia che ti fa respirare. Sintetizzando in modo potente un capitolo del profeta Geremia, don Giussani gli attribuiva questa frase: “ti ho amato di un amore eterno, avendo avuto pietà del tuo niente”. In un momento così mi sono chiesto ‘chi sono io’, cioè ‘cosa mi fa vivere dentro tutto questo’. La risposta non è una formula. Quando accadono queste vicende uno è posto di fronte alla domanda centrale della vita. E io cosa potevo fare se non riprendere in mano l’incontro determinante per la mia vita, quello con don Giussani?
Mi rendo conto che in tal modo c’è il rischio di sporcare la sua immagine (infatti l’Alto Adige di oggi titola: “L’ex agente Betulla presenta il libro su don Giussani” – e io mi sono chiesto: perché ex? Non sono mica morto). Io ho avuto la fortuna di vivere un rapporto di amicizia privilegiata con don Giussani: l’ho intervistato varie volte, ne ho scritto un libro (“Un caffè in compagnia”) anche se lui mi aveva chiesto di scrivere la storia di Cl, impegno che non ho potuto mantenere essendo diventato vicedirettore di Libero. Riprendere in mano oggi don Giussani mi ha dato la possibilità di raccontare di lui e di fare così memoria di chi sono io.
Questo mi ha reso ancor più consapevole che non c’è nulla che ti possa capitare di male che non abbia un termine positivo. Da don Giussani ho imparato che tutto è grazia perché c’è stata la risurrezione di Cristo, e la risurrezione di Cristo è la vita come amicizia con le persone che ti sono più care e anche con chi è lontano perché nulla più ti è estraneo. Con questo libro ho voluto dare a tutti la possibilità di ascoltare la voce di don Giussani, le cose decisive che ha da dire alla vita non dell’umanità in generale ma proprio della tua vita.
Raccontando del mio rapporto con don Giussani sapevo di correre il rischio sia di una eccessiva personalizzazione sia di un certo localismo visto che Desio, sua città natale, è la stessa in cui sono nato anch’io e ci sono anche degli intrecci sia pur molto lontani tra le nostre famiglie. Ma la cosa sorprendente che mi rende testimone del miracolo è questa. Desio, in Brianza, è considerata il luogo di maggior resistenza alla scristianizzazione e della più forte alleanza fra il popolo e gli intellettuali che erano i sacerdoti. Sin dai tempo di Ambrogio e poi di San Colombano evangelizzatore della Lombardia, Desio è stato sempre il punto di riscossa della fede. Non a casa quando nacque don Giussani c’era un papa di Desio: Pio XI. Io ho bevuto lo stesso latte e la stessa dottrina, la stessa arte cristiana di cui è ricca la chiesa di Desio, il culto della Madonna con i pellegrinaggi a Caravaggio, l’idea del lavoro.
Ma allora perché a Desio tutte queste cose senza don Giussani erano vere ma morte, e con lui sono invece diventate vive? Quando c’è un’esperienza umana vera è sempre generata dallo Spirito Santo e non è mai la semplice somma degli elementi pregressi (la tradizione cristiana, la frequentazione della chiesa, ecc.). Prima di lui c’era la stessa cultura ma non aveva impeto, non faceva ribollire il sangue. Nella vita di don Giussani si vede bene questo: c’è la libertà di Dio che dona la Grazia e la libertà dell’uomo che l’accetta o la rifiuta. Infatti nella storia notiamo da una parte il cattolicesimo concepito come una sequenza di comandamenti e di morale, dall’altra come una serie di valori più o meno progressisti o tradizionalisti. In questo modo si rischi di perdere di vista la persona di Gesù, presente qui ed ora. Per Grazia. Don Giussani ha testimoniato questo. Dio non ci fa mai mancare le persone che testimoniano questo. Che testimoniano come don Giussani che Dio vuole per noi una vita utile che sia per la felicità.
La verità è che don Giussani non ha inventato niente. Non c’è il cristianesimo di don Giussani, ma l’avvenimento cristiano preso sul serio da una persona. Lui ha imparato tutto dai suoi genitori che gli hanno dato la fede e soprattutto il metodo, l’uso della ragione, con il padre gli raccomandava di chiedersi sempre il perché delle cose. Poi in seminario ha conosciuto la poesia di Leopardi, in cui la donna rappresentava la Bellezza che non riusciva ad incarnarsi. Come mi raccontò il cardinale Giacomo Biffi, Giussani apprese dal suo insegnante di allora, Giovanni Colombo, che quella stessa Bellezza che Leopardi bramava, in Cristo non è più sopra le nuvole ma ha preso forma d’uomo. Non si tratta anche in questo caso di un’invenzione di don Giussani, ma del ‘cristocentrismo estetico’. Solo che don Giussani lo prendeva sul serio, fino a utilizzare le parole di Leopardi come una preghiera dopo la comunione.
La stessa etimologia della parola poesia che don Giussani spesso ricordava, deriva dal greco e dall’ebraico ed ha a che fare con la parola creazione. Per questo lui diceva che il più grande poeta è Dio. Queste cose negli altri restavano lì, mentre in lui diventano movimento, movimento nella vita sua e degli altri. Non fu don Giussani a creare un gruppo all’interno del seminario, Studium Christi, né Gioventù studentesca, che c’era già, né a chiamare il gruppo adulto Memores Domini, nome inventato da un suo amico, don Giuseppe Lattanzio. Tutto ciò che don Giussani riceveva prendeva vita: questo è il suo carisma.
Vi racconto ora un episodio che non troverete nel libro ma al quale tengo molto per spiegare perché sono convinto che si possa e si debba pregare don Giussani. Don Giussani è morto la notte del 22 febbraio 2005 e alle 4 di mattina io mi trovavo nella sede di Cl per rispondere, essendo del mestiere, alle telefonate dei giornalisti. Ricordo che alla domanda di un giornalista della Stampa, Mattia Feltri, che mi chiedeva se don Giussani avesse mai fatto miracoli, risposi non so perché che ne avrebbe fatto uno di lì a dieci giorni. Poco dopo un amico mi parlò di una donna affetta da una gravissima forma di tumore al cervello. Gli dissi di pregare don Giussani e lei, cristiana non particolarmente fervente e soprattutto completamente ignara di chi fosse don Giussani, mi ascoltò. Poi quella donna non è guarita, ma la sua vita è completamente cambiata. E’ diventata un centro pulsante di vita nuova, la mia vita e quella di altre persone hanno iniziato ad essere influenzate da lei che ci sollecitava a pregare sempre, dicendomi di affidare a lei, malata, le mie preoccupazioni.
In lei - che sono andato a trovare poco prima che morisse, 15 giorni fa - io ho visto che cos’ il carisma di don Giussani: che ogni istante della vita, perfino quando la stai morendo, si riempie di bellezza, diventa fino in fondo umano. E’ il cristianesimo reso vivo adesso che attraverso di lui colpisce l’esistenza di altri. E’ la possibilità per chi lo incontra di essere più umani pur restando malati o continuando a sbagliare e ad inciampare, perché sei sostenuto dalla certezza di non essere solo, dalla certezza che c’è una presenza che non ci abbandona e colma il nostro Bisogno, con la B maiuscola, di essere. Perché noi come disse a Roma durante l’incontro dei movimenti ecclesiali con il Papa nel 1998, siamo mendicanti del cuore di Cristo, cioè dell’assoluto, e nello stesso tempo Cristo è mendicante del cuore dell’uomo, anzi è colui che per primo si è fatto incontro all’uomo.
Questo suo metodo poneva al centro di tutto la ragione non intesa intellettualmente, ma come insieme delle domande decisive del nostro cuore, l’apertura alla realtà totale: desiderio intelletto e sentimento. Tutto ciò che è umano, insomma: a questo Cristo risponde e si fa incontro come un’esperienza. La vita è positiva non perché siamo ottimisti con la volontà, ma perché se anche l’uomo fa un po’ schifo, nella realtà si è impresso l’avvenimento di Cristo. Anche se siamo dispersi, soli, perseguitati o siamo rimasti in pochi, un minuscolo resto d’Israele, Dio incarnandosi e risorgendo ha vinto. Tutto questo è detto fantasticamente in “Gesù di Narareth”, il libro appena uscito di Benedetto XVI.
Scusate se questa risposta è stata lunga, ma spero con questo mio libro di far sentire la voce di don Giussani, che poi non è la voce sua ma la voce di un altro che lo muove”.
Domanda
“C’è un episodio che ti ha mostrato come don Giussani non fosse un sacerdote qualunque?”
Risposta
“Quasi subito. Vedevo l’unità di quelli che stavano con lui e che invidiavo perché pur essendo amici non erano chiusi ma aperti a tutti. Mi rendevo conto che questo era mescolato alla fede e alla preghiera ma non capivo. Mi ricordo un raduno a Pesaro nel 1971. Don Giussani non parlava a me ma teneva una lezione davanti a 3.500 persone, eppure descrisse esattamente il mio cuore, il mio groviglio di passioni, prendendo sul serio il mio desiderio in quel momento, di una donna, di bellezza, pienezza, felicità e mostrando che Gesù Cristo era la possibilità che tutto questo si avverasse.
Del resto anche il Vangelo mostra che Gesù era una personalità eccezionale, tanto che gli uomini non potevano fare a meno di sentirsi affascinati e attratti da lui anche se non capivano niente, ma sentivano che lì, in quell’uomo, c’era la risposta di cui avevano bisogno. Con questo non voglio paragonare don Giussani a Gesù Cristo ma dire che me lo rendeva presente come è presente un amico. Un amico è colui che quando sbagli ti difende, ti protegge, fa in modo che tu non ti senta solo. Non per una sorta di copertura mafiosa, ma perché quest’amicizia, questa misericordia è la grande regola del mondo di cui il cristianesimo è l’esperienza su questa terra.
La risposta al nostro bisogno non è una cosa intellettuale, ma – appunto – un caffè in compagnia, purché quest’amicizia non sia un possesso, ma rimandi al destino, a un’apertura infinita. Andrea, tornando a casa dopo aver incontrato Cristo voleva più bene alla sua donna. O l’amicizia è guidata al perché della vita, oppure è un inganno. Ecco perché l’essere amico coincide con l’essere anche educatore. Gesù lo chiamavano maestro e lui diceva “ma io vi ho chiamato amici”.
Raccontando queste cose di don Giussani non voglio dire che ora si deve vivere come nel culto di una mancanza. Lui ci spiegava che i “cieli” della preghiera del Padre nostro sono in realtà la profondità delle cose. E io penso che essendo lui ora in cielo si trovi nella profondità della nostra esistenza come una sorgente viva.
Domanda
“Don Giussani sapeva spiazzare e sorprendere chi l’ascoltava e ci augurava spesso di “non essere mai tranquilli”, non perché ci volesse nevrotici, ma perché non intendeva la fede come una specie di consolazione intimistica e di ‘pace’ in cui rifugiarsi di fronte alle difficoltà e disavventure della vita. Questo modo di proporre le cose apparteneva un po’ anche al suo temperamento e al suo carisma. Com’è possibile mantenere questa sana inquietudine ora che lui non c’è più?”
Risposta
“La pace è l’inquietudine. La pace non è mettere le pantofole. Dio è l’eterno lavoratore. Non si può rinunciare al battito del cuore. Occorrono meno dibattiti e più battiti. La pace consiste nel seguire uno che cammina con te. E’ sbagliato dire “adesso che lui non c’è più”, perché veramente la morte non è l’ultima parola nell’esistenza di una persona. Anche don Giussani prima di morire ha lasciato le sue ‘disposizioni testamentarie’, nel senso che ci ha lasciato in Cl e in chi la guida altri per aiutarci a vivere questo metodo. Ci ha lasciato chi come don Carron umilmente si identifica con questo metodo, con il suo carisma.
Lui ripeteva sempre che al mattino di decide tutto della giornata. Al momento in cui ti alzi e fai il segno della croce: puoi ubbidire allo stato d’animo, oppure alla croce. Per questo ci invitava a dire l’Angelus, facendo memoria che Dio si è fatto carne e abita in mezzo a noi. Ma ci diceva anche che per dire questo con verità occorre la mendicanza, l’inquietudine del cuore cui accennavo prima.”
Domanda
“Leopardi era anticristiano e non è quindi giusto annetterlo al cristianesimo. Il messaggio di Cristo non è l’amicizia come dice lei, ma il comandamento dell’amore. La vera domanda è come essere cristiani nel mondo moderno amando sia lo straniero che il nemico.”
Risposta
“Don Giussani non ha mai pensato di impossessarsi di Leopardi né di ‘battezzarlo’. Ha colto e ripreso di lui il desiderio di infinito, di totalità e di bellezza che i cristiani dimenticano e a cui solo Cristo risponde. L’essenza del cristianesimo non è un comandamento ma un avvenimento, una persona. Non un’etica, ma un’ontologia che implica poi anche un’etica. L’essenza del cristianesimo non è l’amicizia ma la persona di Cristo.
A parlare per primo di età moderna fu Bodelaire. La modernità è l’età in cui l’uomo crede di poter fare a meno di Dio, convinto che gli basti la ragione intesa come calcolo, come misura e come scienza. Il presupposto della modernità era l’annullamento del dolore, del limite strutturale dell’uomo. Con Adorno si scopre però che questo dolore non si può annullare.
Oggi non siamo più nella modernità. Nel 1985 viene coniato il termine post-moderno, per indicare che la ragione così come la intendeva la modernità non risolve i problemi dell’uomo. Il postmoderno mostra che la ragione non arriva in realtà da nessuna parte: è l’età del nichilismo e del narcisismo. Il cristianesimo propone a ciascun uomo la risposta al suo bisogno di significato. Se tu togli Dio agli uomini pensando così di aiutarli, togli l’uomo a se stesso. Don Giussani ha sottolineato la centralità di Cristo.”
Antonio Girardi