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Riflessioni su Hobbes e la politica.
Di Francesco Agnoli - 12/04/2007 - Filosofia - 1702 visite - 0 commenti
Di Mattia Tanel, dei giovani di libertà e persona: "La dottrina politica del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) ci viene spesso presentata, a scuola e non solo, come incredibilmente arcigna e pessimistica. Ogni studente sa riferire i famosi motti "bellum omnium contra omnia" e "homo homini lupus", e ricorda per sommi capi l'intransigente teorizzazione hobbesiana dell'assolutismo: esattamente quanto basta per rubricare il nostro autore alla voce "reazionari" o giù di lì. Pare, d'altronde, che già in vita Thomas si divertisse a dare di sè un'immagine volutamente 'terribile': amava ad esempio dichiarare di essere nato "gemello della paura", poichè sua madre, terrorizzata per l'approssimarsi all'Inghilterra dell'Invincibile Armata spagnola, lo aveva partorito anzitempo. Filosoficamente parlando, la fama di 'duro' di Hobbes può considerarsi meritata; eppure, la lettura di prima mano delle sue opere politiche principali (che sono il De cive del 1642 e il Leviatano del 1651) ci riserva delle sorprese. Vi incontriamo infatti uno scrittore estremamente logico e chiaro, raffinato, dotato di un'arguzia a tratti irresistibile; dal De cive al Leviatano si nota inoltre una netta evoluzione ideale nel senso di maggiori spazi di autonomia concessi ai sudditi rispetto all'autorità del sovrano: un ripensamento che è frutto della meditazione, condotta durante il volontario esilio parigino, sui fatti cruenti dell'intercorsa rivoluzione cromwelliana. Da un punto di vista cattolico, certamente, la filosofia politica (e naturale) di Hobbes è nel suo insieme irrecuperabile, non foss'altro che per il potere assoluto attribuito al sovrano civile nelle questioni religiose; e non va dimenticato che Hobbes è, insieme a Locke e a Rousseau, il filosofo che fonda il moderno Stato "di diritto umano", che non deve cioè rendere conto a Dio delle sue leggi e istituzioni e che ignora per principio il fine trascendente dell'agire individuale e collettivo. A fornire un'idea dell'assurdo giuspositivismo hobbesiano basti la seguente citazione, facilissimamente riconducibile ai casi contemporanei: "non ogni uccisione è omicidio, ma solo l'uccisione di chi la legge civile ci vieta di uccidere" (De cive [1], VI, 16). Sottolineato questo, non dovremmo però sottrarci, anche nei confronti di Hobbes, alla liberante esortazione paolina: "esaminate tutto, tenete ciò che è buono" (1Ts 5,21). Lo sguardo che il filosofo inglese porta sull'uomo e sulla realtà sociale del proprio tempo è pragmatico e distaccato fino agli eccessi del cinismo, che è una patologia dell'animo; ma una patologia pur sempre preferibile all'utopismo irrealistico e generatore di mostri di un Rousseau o di un Marx, stolidamente convinti che tutti i mali dell'uomo, "buono per natura", non siano che accidenti passeggeri dovuti all'inadeguatezza delle strutture sociali. Se è vero, come è vero, che il timore del Signore è l'inizio della sapienza, secondo quanto afferma la Bibbia [2], si può parallelamente sostenere che una presa di coscienza obbiettiva dell'abbacinante miseria in cui versa l'uomo decaduto sia il presupposto ineludibile di una comprensione non superficiale della corrispondente, inconcepibile grandezza di cui quello stesso uomo è portatore in virtù della sua origine e del suo fine ultramondani. Hobbes non è mai giunto, purtroppo, a questo livello più profondo; non ha fatto esperienza di uno sguardo che, pur senza nascondersi l'imperfezione umana, sappia giustificarla e superarla nella comprensione addolorata e partecipe. Il suo disincanto troppo spesso si trasforma in sarcasmo, il sarcasmo in cachinno derisorio; ma chi può dire che questa sua percezione, così acuminata, della vanità e dell'egoismo che nel mondo sono la regola, e le descrizioni impietose con cui ce ne rende testimonianza, non siano un oscuro e vertiginoso presentimento del divario tra la condizione effettiva dell'uomo e la condizione celestiale e perfetta a cui l'uomo è chiamato? Viene in mente Giovanni Papini (1881-1956), che prima della conversione, nel suo Un uomo finito del 1913, affermava di sentirsi un "lupo hobbesiano dalle zanne che hanno bisogno di mordere e straziare": e ogni riga vergata dal Papini miscredente ci mostra il suo autore immerso in una febbrile e rabbiosa rivolta contro la mediocrità, l'ignavia, la pusillanimità propria e (soprattutto) altrui. Ma a Papini riuscì, come non riuscì ad Hobbes, di andare al fondo della sua insoddisfazione e di sublimarla nella fede e nell'amore del prossimo; e un giorno poté scrivere: "quel mio cinismo dei primi giorni era sparito, mutato in una pietà che non conoscevo, così acuta" [3]. Un mutamento che ad Hobbes non riuscì, dicevo, ma che mai e poi mai sarebbe riuscito ad un Rousseau o ad un Marx, troppo impegnati a chiudersi gli occhi di fronte alla meschinità dell'uomo per scorgerne anche l'insospettabile grandezza. [1] Trad. it. di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979. [2] Cfr. Sal 110[111],10. [3] La Seconda Nascita, uscito postumo nel 1958.
 
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