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Napoli e la sua nemesi
Di Massimo Viglione - 27/06/2011 - Attualitą - 1308 visite - 0 commenti

Quando si è saputo della vittoria di De Magistris a Napoli, le persone intorno a me erano abbastanza dispiaciute, arrabbiate, costernate anche, come ovvio che sia. Anche per me naturalmente questi sono stati i primi sentimenti (ancor più aggravati dall’incredibile vittoria di Pisapia a Milano), ma poi, dopo breve riflessione più intuitiva che razionale, ho sentenziato:

secondo me è meglio così. E di gran lunga… De Magistris non è un semplice uomo di sinistra, e non è neanche un Masaniello, come è stato detto, perché non ha fame, anzi, sta molto bene. È invece un giacobino della peggior specie, cioè di coloro che non credono in nulla se non alla propria ambizione personale e fanno del loro giustizialismo strumento di carriera.

Ora ha vinto: ma non essendo un semplice politico di sinistra, come Bassolino o la Jervolino, non potrà venire a patti con Napoli. E nemmeno con la padrona di Napoli, la camorra. Dovrà sfidarla, e vincerla pure: ed è proprio questo il grande vantaggio per noi: qualcuno infatti ha dubbi su chi vincerà la sfida tra Napoli e De Magistris? Tra De Magistris e la camorra?”.

Dicendo tutto questo, non immaginavo che avrei avuto ragione solo dopo una settimana… Ma non è di questo esattamente che volevo parlare. Volevo sottoporre all’attenzione una piccola amarissima riflessione, ancor più scomoda nell’anno 150nario in cui ci siamo tutti (o quasi) sentiti italiani con tante bandiere alle finestre.

Fin da quando andiamo a scuola, fin dalle elementari, ci fanno respirare a pieni polmoni la “vulgata” risorgimentale, in tutti i suoi triti e ritriti aspetti oleografici. Fra questi, uno dei più consistenti e ripetuti è quello della mostruosa arretratezza del Regno delle Due Sicilie, la “negazione di Dio”, come fu definito a quei tempi, terra di abbandono e miseria, ingiustizia e orrore sociale, dove 7 milioni di persone gemevano nella fame e languivano nella sporcizia in attesa del “riscatto” italiano, della “liberazione” piemontese, che arrivò puntuale a liberare il Sud arretrato per trasformarlo finalmente in una terra di progresso, orgogliosa di essere italiana.

È fin troppo facile oggi fare ironia sulle scempiaggini risorgimentali, sulle calunnie infami su cui i padri della Patria dovettero costruire la giustificazione morale per invadere un Regno sette volte secolare, pacifico, alleato del Re che lo invase, a quei tempi il più progredito d’Italia, dopo il Lombardo-Veneto; scempiaggini imperdonabilmente ripetute decine di migliaia di volte in questi 150 anni, dai manuali di scuola ai libri di storia più impegnativi, dai giornali alla tv, dai discorsi dei docenti a quelli dei politici, ecc. Non mi attarderò quindi a riportare facile vittoria su tutto quanto – e questo vale specie per uno come me che di mestiere fa lo storico del Risorgimento – si sente da decenni.

Più amara riflessione voglio fare per concludere: ed è quella della infallibilità della nemesi storica. I padri dell’unitarismo italiano presentarono – mentendo sapendo di mentire – il Regno delle Due Sicilie, e in particolare la città di Napoli, come una mostruosità della società umana (paragonata ai bassifondi di Istanbul), e questo ovviamente per poter giustificare come detto l’invasione piemontese agli occhi propri, degli italiani, dei governi europei, dei posteri.

Ora, in questi 150 anni di unità statuale, neanche a farlo apposta, la terra che più di ogni altra ha subito conseguenze negative dell’unificazione è il Sud Italia (questione meridionale, corruzione endemica, clientelismo, mafia e camorra et similia, povertà, disoccupazione, arretratezza sociale e civile, mancanza di infrastrutture e di speranze per i giovani, immigrazionismo, e chi più ne ha più ne metta…). E la città che più di ogni altra verte in una situazione di orrore (stavolta veramente orrore) di sangue quotidiano per le vittime della camorra e di fetore di immondizia di cui è sommersa, è proprio Napoli.

Quella Napoli che nel XVII secolo era capitale europea di cultura e benessere, che sotto i Borbone ha visto cambiare il suo volto sociale, urbano e architettonico, quella Napoli, situata in un paradiso naturale (“Vedi Napoli e poi muori”) che le ha permesso di produrre una civiltà propria, nel senso di cittadina ma allo stesso tempo universale, nella letteratura, nella poesia, nell’arte, e, soprattutto, nella cucina e nella musica (una cucina amata ovunque, regina fra tutte le tradizioni culinarie di questo pianeta, una musica celebre in tutto il mondo, quasi si trattasse di una produzione nazionale anziché urbana), quella Napoli meta di tutti i grand tour del ‘700 e dell’‘800, celebrata dalle migliori penne del romanticismo e dai migliori pennelli del XIX secolo – questa Napoli oggi, dominata dalla nostra Repubblica Italiana, governata da decenni dai partiti del “sol dell’avvenire”, del progresso civile e sociale del proletariato, questa Napoli, nipote della conquista garibaldina, figlia della resistenza delle quattro giornate, frutto del celebratissimo “rinascimento bassoliniano” di cui per dieci anni tutti i giornalisti d’Italia ci hanno riempito gli occhi e le orecchie, ebbene, questa Napoli, ora in mano al giacobino De Magistris esponente di lusso della sinistra giustizialista, muore immersa nell’immondizia. Un’immondizia morale e civile, prima ancora che materiale. Oggi, si può ben dire, “Se vedi Napoli, poi muori”…

La Napoli degli acquarelli ottocenteschi, con il Vesuvio fumante e il suo popolo (nobili e scugnizzi, frati e borghesi mischiati insieme in armonia sociale e civile) che passeggia negli incantevoli panorami di Posillipo o di Capodimonte, nella marina di Via Caracciolo o in Piazza Plebiscito; la Napoli delle canzoni di fine ‘800 e prima metà del ‘900, famose in tutto il mondo per la melodia e le parole, per il dramma e l’ironia; la Napoli della funicolare e del traghetto per Capri, Sorrento e Ischia; la Napoli poetica Ferdinando Russo e Salvatore Di Giacomo, e la Napoli gioiosa di Totò e Peppino o drammatica dell’Oro di Napoli o di Miseria e nobiltà; la Napoli di san Gennaro e Pulcinella, del Pazzariello e del guappo; questa Napoli, tutta sole mare mandolino pizza e spaghetti, per quanto la si voglia oggi deridere o biasimare, è esistita, e, a suo modo, era una civiltà.

Civiltà che solo a Napoli si può capire e vivere, non altrove, nella sua filosofia secolare, fatta di fatale e scettico ma anche saggio abbandono alla vita e alla Provvidenza, come di incontenibili esplosioni di ira popolare e di gioia collettiva; questa Napoli, in qualche modo ancora esistente 50 anni fa, oggi è sommersa dall’immondizia del progresso civile e sociale della nostra Repubblica, e dal sangue camorristico della tolleranza giudiziaria, politica e morale della nostra classe politica e culturale. Al posto degli acquarelli, foto d’epoca della serenità povera e tenace di un popolo, oggi vi è Scampia e Secondigliano, altra foto d’epoca di questi giorni di sangue e immondizia. E più Napoli sprofonda in questo abisso, vera “negazione di Dio”, più storici e giornalisti, docenti, politici e intellettuali, ci vengono a dire che Napoli fu liberata 150 anni fa dalla barbarie borbonica…

È tutta colpa del Risorgimento? Della Repubblica? Di Bassolino e soci? Non del tutto, occorre essere onesti. È colpa anche dei napoletani: non solo e non tanto perché dovevano aspettarselo 150 anni fa; quanto piuttosto perché se ancora oggi, dopo 150 anni, continuano a non capire, continuano a dimenticare quanto era bella Napoli quando non era italiana ma napoletana, continuano a dimenticare quanto era bella Napoli sotto i mostruosi Borbone, continuano a dimenticare ciò che le loro canzoni del passato e i loro acquerelli, quadri e affreschi stanno lì a ricordare ogni giorno, se ancora oggi, dopo 20 anni di bassolinismo e jervolinismo, continuano a votare a sinistra, se ancora oggi, dopo aver vissuto da decenni sotto il regno della camorra, continuano a volerci vivere, ebbene, allora è colpa anche dei napoletani, soprattutto dei napoletani.

Soprattutto di quelli che credono che Bassolino e De Magistris siano la soluzione alla camorra. E all’immondizia. “La maledizione degli uomini”, fa dire J.R.R. Tolkien a uno dei suoi personaggi: “è che dimenticano”. E quante cose hanno dimenticato i napoletani…

E oggi la Storia presenta loro il conto. Un conto non salato, ma “fetente”, per usare per l’appunto nel suo senso più letterario una nota colorita espressione partenopea. Un consiglio mi permetto di dare ai napoletani: per tornare alla memoria della Storia, si vadano a rileggere quello che fecero i loro antenati nel 1799, come reagirono quando arrivarono i giacobini e i francesi che volevano cacciare i Borbone e annientare la religione, per costruire una “nuova Napoli”, repubblicana e democratica. Se lo vadano a rileggere, perché potrebbero scoprire che i loro antenati, i celebri lazzaroni, ignoranti e poveri, sudditi dei Borbone e non cittadini della Repubblica Italiana, erano molto più intelligenti di loro, perché capirono subito cosa stavano perdendo, cosa stava arrivando in cambio, e seppero cosa fare.

Si vadano a rileggere le parole del loro inno, la “Carmagnola”. Lì c’è scritto già tutto… Può essere un buon modo per ricominciare a trovare la propria memoria, la propria storia, la propria civiltà, la propria libertà. Basterebbe capire che camorra e immondizia sono la stessa cosa, su tutti i piani, morale, civile, sociale, politico. E che hanno la stessa causa e la medesima fonte. Provate a indovinare quale è questa causa, dove è questa fonte, cari napoletani.

 
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