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Alcuni pensierini sparsi di un cattolico perplesso. Il primo: girava in questi giorni, in rete, la foto di un prete che celebrava messa. Sull’altare, in bella mostra, visibile a tutti, la bandiera del referendum sull’acqua. L’altare, divenuto tavola, e la tavola divenuta tabellone pubblicitario.
Si capisce che siamo messi piuttosto maluccio. Questi preti, che si sono schierati così apertamente per un referendum, sostenuti da numerosi vescovi, mi interrogano. Mi chiedo, anzitutto, come possano appassionarsi così tanto, davvero, e non per finta, per qualcosa di così opinabile e di così poco importante. Se andare sulla luna è, dal punto di vista della salvezza dell’anima, come salire su un autobus, decidere se i tubi dell’acqua li gestisce lo Stato o i privati, dovrebbe essere, per un prete, piuttosto secondario. Anche se i referendari avessero perfettamente ragione, infatti, il regno dei cieli, è forse legato alla gestione delle reti idriche italiane? Noto anche che tanta baldanza, tanta voglia di esporsi, non si vede quando in gioco vi sono valori ben più alti, e più difficili da difendere. Viaggia, molto clero, al seguito del mondo. Omogeneo, indistinguibile.
Per questo si entusiasma per battaglie fittizie, che scadono in un fiat. Domani servirà qualcos’altro, per sentirsi vivi, giusti, ed idealisti. La sinistra, sempre pronta a creare surrogati scadenti e scaduti, proporrà nuove Armagheddon. Col seguito di quei religiosi a cui, non interessando più nulla la salvezza delle anime, interessa tutto il resto.
Scriveva Marcel de Corte, sottolineando la strana alleanza tra parte del clero e rivoluzione anticristiana: “il prete, che una vocazione superiore sradica, e che non prende nuovamente radice umilissimamente nel soprannaturale, diviene per eccellenza agente di dissolvimento e distruzione del mondo e dell’uomo, l’utopista, il rivoluzionario protetto, il sobillatore di prim’ordine delle folle, insuperabile”.
Secondo pensiero: sono stato domenica a trovare mio cugino, sacerdote. Dopo la messa, preparata con cura e zelo, si è precipitato all’ospedale, a trovare due malati. Poi, senza perdere un attimo, è tornato a casa e ha fatto da mangiare a tutta la mia famiglia. Finito il pranzo e alcune chiacchiere, subito in oratorio, per preparare il grest per centocinquanta bambini. Quando vado a trovare mio cugino, mi riconcilio con i preti. Ha rinunciato ad una famiglia, ad una casa, ad una stabilità; rinuncia, continuamente, a se stesso, persino ad un po’ di tempo libero, e siccome gli altri se ne accorgono, lo cercano e lo spremono come un limone. Che ha sempre qualcosa da dare, perché lo attinge non da sé, ma da Cristo. Non tutti i preti sono, insomma, dei pagliaccetti politicanti, degli opinionisti da giornale di partito, né degli utopisti sradicati. Ve ne sono ancora molti capaci di dare tutto se stessi a Dio e al prossimo, cioè di rendere visibile la grandezza della carità di Cristo. Penso che se ce ne fossero un po’ di più come lui e un po’ meno come lo sbandieratore, Odifreddi e soci eviterebbero di scrivere, senza vergogna, che la castità è contro natura, mentre la poligamia no.
Un ultimo pensiero: c’è una nuova, meritevole rivista, intitolata “Liturgia culmen et fons”, edita da Fede & Cultura. Don Enrico Finotti, che la dirige, crede che il crollo della liturgia sia come il peccato originario, quello di Adamo ed Eva che non riconoscono più di essere stati creati, e rifiutano di adorare. Crede che la Chiesa abbia civilizzato i popoli, non con i discorsi, né con i referendum, né appoggiando questo o quel partito, ma con i sacramenti. Nell’ultimo numero ha scritto un bell’articolo, “Il Soggetto della liturgia”, che vorrei mandare al prete che mette la bandiera sull’altare perché ha dimenticato, appunto, chi sia il protagonista della messa: Cristo e la sua Chiesa.
Ha scritto tra il resto don Enrico: “Si assiste oggi, infatti, ad una riduzione solo sociologica dell’Assemblea liturgica, ossia, si considera soltanto il piccolo o grande gruppo che si vede e che si raduna in un certo luogo, ma si dimentica tutto il resto: la sua invisibile dimensione universale e soprannaturale. Soprattutto non ci si rende conto a sufficienza della presenza e dell’azione del Capo del Corpo, senza il quale tutto svanisce ed è travolto dal flusso inesorabile del tempo senza lasciare l’impronta di una salvezza eterna e definitiva. Una ‘pastorale dimezzata’, attenta esclusivamente ai dati sociologici, ha ridotto la liturgia all’azione creativa del gruppo che gestisce di volta in volta il rito, senza più garantire a sufficienza l’azione del Signore, la comunione con i Santi, la Tradizione dei secoli e la sintonia con l’universalità della Chiesa. In tal modo la liturgia diventa l’espressione del ‘noi qui convocati’ e della nostra cronaca quotidiana. Svanisce il respiro dei secoli, si chiude l’orizzonte della Chiesa diffusa su tutta la terra, si oscura la comunione dei Santi nel cielo e Cristo stesso rischia di essere un ospite di riguardo invitato ad assistere ad una nostra sempre mutevole creatività e a condividere quello che piace fare a noi”.
Così si finisce per togliere la croce di Cristo dall’altare e sostituirla con una bandiera di Di Pietro. Il Foglio, 16 giugno 2011