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Fiero di essere italiano...
Di Francesco Agnoli - 14/06/2011 - Storia del Risorgimento - 1735 visite - 0 commenti

Antropologicamente e psicologicamente, ha scritto Gian Enrico Rusconi, l’uomo italiano è inconfondibile. Quello che manca, invece, è un senso civico nazionale”. Partiamo da questa considerazione essenziale: l’italiano esiste.

L’Italia è sempre esistita, non come entità statuale, ma come popolo, come nazione, come cultura. Con tante differenze, ma con delle caratteristiche comuni. Dante è esempio evidente di questa italianità: amante del suo campanile, Firenze, viaggiatore e ospite di vari signori, da Verona a Rimini, fautore dell’unità imperiale, nell’ottica del Sacro Romano Impero…E padre della nostra lingua volgare. Dante definisce così l’Italia: “il paese dove ‘l sì suona”; il paese, potremmo dire, noto anche come il “Belpaese” per eccellenza. La storia d’Italia è storia di fede, di arte, di cultura, persino di cucina (con una varietà di piatti unica al mondo).

 L’Italia è la terra della Magna Grecia e di Archimede; la terra in cui sorge Roma: il cuore della Res publica e dell’Impero; è la terra in cui muore san Pietro, e quindi la patria dei papi e del cattolicesimo mondiale. E’ in Italia, soprattutto guardando a Roma, che i barbari germanici apprendono la civiltà; è qui che un re franco, Carlo Magno, viene nominato imperatore nella notte di Natale dell’800, quando nasce l’Europa.

Ci sono mille motivi, dunque, per essere innamorati dell’Italia, per ringraziare il Cielo di essere nati italiani. Italiano era anche san Benedetto, patrono dell’Europa, che con i suoi monaci salvò la nostra civiltà dallo sfacelo delle invasioni barbariche e mantenne in vita la tradizione classica con l’opera degli amanuensi. San Benedetto è stato molto più che uno statista, o un condottiero. E’ stato l’uomo che ha ridato speranza ad un mondo che si stava smarrendo.

L’Italia è stata anche la culla della medicina e dell’istituzione ospedaliera. La prima medicina medievale è quella monastica, praticata nei conventi, in particolare benedettini. Il già citato Bendetto “ebbe fama di studioso di cose mediche e di grande guaritore”. Analogamente Cassiodoro, “che si ritirò nel chiostro, vi portò la conoscenza dell’antica letteratura classica e raccomandò ai monaci lo studio dei testi di medicina greci” (Enciclopedia Treccani, voce “medicina”).

E’ italiana, romana, la prima fondatrice di un ospedale in Occidente, Fabiola; è italiana, a Salerno, la prima Schola medica; è italiano colui che è considerato il fondatore dell’ospedale moderno, san Camillo de Lellis… Qui, nell’Italia politicamente divisa, nasce la prima università del mondo, quella di Bologna, che contribuirà a fare dell’Italia la culla del diritto.

Italiano è il più grande filosofo e teologo del medioevo, san Tommaso. Italiano è il più grande riformatore religioso, san Francesco: “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Sempre in Italia nasce la scienza moderna, dal momento che i grandi padri del pensiero medico e scientifico sono sovente italiani o stranieri, che però studiano e apprendono in Italia: penso al prete polacco Copernico, studente a Bologna, Padova e Ferrara; al pisano Galileo Galilei, fondatore del metodo sperimentale; a tutti i primi anatomisti: Mondino de’ Liuzzi e Gugliemo da Saliceto, in pieno Medioevo; Alessandro Achillini e Alessandro Benedetti, nel Quattrocento; sino a Vesalius, il grande anatomista fiammingo formatosi alla scuola degli italiani e all’università di Padova.

E’ Venezia, invece, la città in cui alla fine del Quattrocento vengono stampati i più importanti libri di medicina. Anche gli studi fisiologici cominciano in Italia, nel Cinquecento: la circolazione del sangue viene studiata da Michele Serveto, spagnolo che studia a Padova, e poi dall’italiano Realdo Colombo, insegnante di anatomia a Padova, e da Andrea Cisalpino. Sarà William Harvey, nel 1628, a descrivere più accuratamente la circolazione sanguigna, dopo i suoi studi, ancora una volta, presso l’università di Padova. Si potrebbe continuare a lungo, ricordando il genio scientifico di Leonardo da Vinci, oppure l’opera di Niccolò Stenone, il danese, un giorno vescovo, che a Firenze, al contatto con la scuola galileiana, fondò la geologia e la cristallografia…

 L’Italia, inoltre, è la terra dei navigatori, da Cristoforo Colombo ad Amerigo Vespucci; delle repubbliche marinare e dei mercanti (Marco Polo); dello stile romanico e del barocco; delle banche e dello zecchino d’oro… Per secoli l’italiano, come ricorda A.J. Gurevic, è la lingua internazionale dei commerci, come lo è, a lungo, della cultura, dal momento che ancora nel Settecento, alla corte di Vienna i poeti cesarei si chiamano Apostolo Zeno e Metastasio. In Italia nascono la commedia all’improvviso, il melodramma, la gran parte (40-50%) del patrimonio artistico mondiale: Giotto, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Bernini… Anche nel Seicento e nel Settecento l’Italia dà moltissimo: nella scienza Marcello Malpighi, Lorenzo Bellini, Gian Alfonso Borelli, Francesco Redi, Giorgio Bahlivi…

Nel Settecento ci sono giganti come Giovanni Battista Morgagni (1771+), don Lazzaro Spallanzani (+1799), Luigi Galvani (1798+), Alessandro Volta (+1827)… Si potrebbe continuare a lungo, ma è chiaro che amare l’Italia è più che naturale (senza che questo amore divenga, mai, nazionalismo). Italiano è stato sinonimo, per secoli, di uomo di cultura: lo era per Erasmo da Rotterdam, e lo era per i romantici settecenteschi che scendevano dal nord nel nostro paese, a godere il nostro clima, la nostra arte, la nostra cultura, la nostra variegatissima e ricchissima cucina…

Allora, perché ci piangiamo sempre addosso? Perché siamo un popolo così poco fiero della nostra storia e della nostra cultura? Un popolo così poco patriottico? Perché siamo così schiavi del luogo comune per cui in Italia andrebbe tutto e sempre male, mentre altrove…? Ci sono vari motivi. Uno, senza dubbio, è la calunnia secolare di coloro che identificano, non senza fondamento storico, italiano con cattolico.

Sono gli inglesi anglicani, per fare un esempio, a considerarci male, da secoli, in quanto “papisti”, legati cioè nientemeno che all’ “Anticristo”. Sono loro tra i principali divulgatori dello stereotipo negativo dell’italiano. Quello per intenderci, che fa ancora oggi dire, nei paesi protestanti, quando si parla di italiani: “pizza, mafia e mandolino”, invece che “Dante, università, Roma, scienza ed arte”…

Sono i protestanti in generale, infatti, ad aver creato una nomea negativa riguardo all’Italia cattolica, in nome della lotta al “papismo”. Ma insieme a costoro occorre ricordare tutti quegli italiani che hanno in odio il cuore cristiano della nostra storia. Penso a personaggi come Niccolò Machiavelli, il teorico della ragion di stato, della amoralità della politica, del principe che deve essere “mezzo bestia et mezzo uomo”, e che deve essere, se “necessario”, capace di mentire, di essere crudele, di malvagità e di dissimulazione. Machiavelli aveva una idea fissa: che la Chiesa cattolica fosse il male dell’Italia…

Egli sapeva bene che la Chiesa era in ogni pagina della nostra storia, per cui il suo disprezzo per il cattolicesimo ed il cristianesimo diveniva disprezzo per gli italiani tout court. Scriveva per esempio dei “Discorsi sulla prima decade” di Tito Livio, lui che era ateo e che considerava la religione solo come instrumentum regni: “E perché molti (si badi bene, ndr) sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia (allora senza dubbio le più ricche d’arte e di cultura del mondo, ndr) nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere…due potentissime ragioni”.

E continuava sostenendo che la Chiesa e la fede cristiana hanno tenuto gli italiani in uno stato di minorità, rendendoci vili, “sanza religione e cattivi”. L’argomento di Machiavelli è quello che hanno usato molti padri del Risorgimento, per attaccare la Chiesa, per cercare di tagliare cancellare le radici cristiane del nostro paese.

Molta della cultura risorgimentale sarà proprio machiavellica. Non solo perché i Cavour, i Mazzini, i Garibaldi, sapranno essere politicamente cinici e machiavellici, non omettendo alcun mezzo, persino l’assassinio politico, pur di raggiungere i loro fini; ma anche perché saranno figli e interpreti del pregiudizio anticattolico ed antiromano del pensatore fiorentino. Ha scritto lo storico Massimo de Leonardis: “Il Risorgimento condivise invece largamente la ‘leggenda nera’ costruita a partire dal XVI secolo dai protestanti contro tutto quanto era cattolico (‘papista’, secondo il gergo).

Fino a quell’epoca l’Italia era giustamente considerata all’avanguardia in ogni campo, tanto da far esclamare ad Erasmo da Rotterdam “Italiani siamo noi tutti che siam dotti”. Ma ecco nel Settecento Samuel Johnson scrivere: ‘Un uomo che non è stato in Italia sarà sempre consapevole della sua inferiorità’” (citato in Rino Cammilleri, “Elogio degli italiani”). Il pregiudizio anticattolico, basato sull’idea della contrapposizione tra la Roma e l’Italia dei Cesari, e la Roma e l’Italia dei papi, sarà anche uno degli elementi culturali chiave della personalità di Mussolini (non a caso colui che rilancerà il mito della Roma imperiale, del “fuoco di Vesta”, in antitesi, più o meno esplicita, alla Roma dei papi).

Ancora oggi quello di Machiavelli è l’argomento che usano spesso alcuni intellettuali nemici del cristianesimo, soprattutto a sinistra: i Prosperi, i Rea, i Giorello ecc… Affermava infatti recentemente Adriano Prosperi, dopo aver esaltato l’autore de “Il principe”, che la Chiesa, con le sue devozioni, ha “fatto degli italiani un popolo ignorante e superstizioso” (Il Foglio, 18/5/2010).

Analogamente un famoso intellettuale di sinistra Ermanno Rea nel suo “La fabbrica dell’obbedienza” (Feltrinelli, 2011), esprime il suo disprezzo per l’Italia cattolica, che non ebbe la Riforma (“quella mancata riforma che ha tolto ogni vigore agli italiani”), che visse “gli orrori della Controriforma” (l’epoca, sia detto i sintesi, in cui Roma diviene capitale mondiale del barocco; in cui nella città santa giungono artisti come Velazquez e Van Dyck; l’epoca in cui nasce, sempre nella città del papa, l’Accademia dei Lincei e in cui muore Torquato Tasso…).

Al contrario, Rea elogia ed ama l’Italia di Gramsci, del PCI, cui egli aderì in gioventù, della Resistenza, che a suo dire produsse “verità e coscienza” (avrà mai letto qualcosa di Claudio Pavone, di Gianpaolo Pansa ecc?). Per Rea gli italiani sono naturalmente servi, sudditi privi di coscienza critica, perché influenzati dal cattolicesimo. Due passi di una sua intervista per capire dove possa portare l’odio inconsulto: a condannare in blocco gli italiani come servi, a causa della Chiesa e a unire in un unico calderone questa presunta inferiorità ormai genetica italiana con la Chiesa, Mussolini e Berlusconi : “Lei descrive anche Silvio Berlusconi come interprete secolare della cappa di obbedienza che ci ha instillato nel cuore la Chiesa”. "Io credo che questa mentalità italiana votata all'obbedienza, che nasce con la Controriforma, abbia generato vittime, ma anche carnefici, o per dirla con meno crudezza, gestori. Mussolini, per esempio. Oggi anche Berlusconi". “Sempre i preti tra i piedi? Questo fa di noi una democrazia imperfetta?”. "Senza dubbio. Tutte le democrazie occidentali sono influenzate dalla religione. Che perfino Obama negli Stati Uniti debba trattare con formazioni e gruppi di ispirazione religiosa è cosa nota. Ma il cattolicesimo italiano ha qualcosa di più vigoroso e pervasivo" ( intervista a cura di Luigi Irdi, Il Venerdì, 25/02/2011).

Insomma…siamo i peggiori, perché cattolici! Similare anche la posizione di Giulio Giorello. In una sua intervista a Micromega (31/1/2011), egli accusa la Chiesa di “fondamentalismo islamico”, nientemeno!, ed esprime la sua predilezione per ciò che accadde nei paesi passati al protestantesimo: “Per certi aspetti (anche se non per tutti!), Lutero, Calvino e Enrico VIII divennero i miei eroi…” Solitamente, i denigratori dell’Italia, dunque, sono italiani, una piccola elite, che hanno sposato la posizione di Machiavelli, e che uniscono le considerazioni del politico fiorentino e le calunnie del mondo anglicano e protestante.

Di qui la lamentela tipica, che trova spazio sempre sui vari Repubblica, l’Unità, Micromega…: l’Italia è arretrata perché c’è Roma; l’Italia è arretrata perché è la sede del papa; l’Italia, poveretta, non ha avuto la Riforma protestante e per questo è rimasta indietro... Ma indietro, rispetto a chi, e in cosa? In questa visione negativa della storia italiana, si colloca a pieno titolo anche la tradizione della sinistra internazionalista e comunista: per decenni i comunisti italiani, che magari oggi sfilano con la coccarda tricolore, hanno rinnegato lo stesso nome di patria. Essere patriottici era un delitto gravissimo. Ricordiamo i comunisti francesi che, durante l’invasione nazista del loro paese, ritennero più giusto appoggiare i tedeschi, in quanto, allora, alleati di Stalin, che la loro stessa patria.

Ricordiamo Palmiro Togliatti, leader di quel partito comunista che all’inizio non si definiva neppure “italiano”, ma “d’Italia”, ad indicare il rifiuto di qualsiasi appartenenza nazionale. Proprio lui al XVI congresso del PCUS ebbe a dire: “E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana per quella sovietica. Io non mi sento legato all’Italia come alla Patria, ma mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo unito a Mosca agli ordini del compagno Stalin. E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana, perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volte più del migliore cittadino italiano”.

Molto meglio, allora, essere cittadino moscovita, dunque, che italiano. Al punto che, all’indomani della II guerra mondiale, Togliatti ed il PCI si schierarono perché Trieste, conquistata dopo una guerra mondiale presentata come il compimento del Risorgimento, venisse sottratta all’Italia e divenisse slava, sotto il comunista Tito. Non dimentichiamo che ancora negli anni Ottanta del Novecento, nelle regioni rosse, durante le partite della nazionale italiana, nei bar si potevano sentire i comunisti tifare non l’Italia, ma l’URSS o altri paesi comunisti, che venivano considerati la vera patria dei proletari! Perché l’unica bandiera accettata non era il tricolore, che anzi finiva spesso bruciato, ma la bandiera rosa con la falce e il martello Ma non è solo questa cultura anti-cattolica ed anti romana, ad aver determinato il fatto, come ha scritto Rusconi, che ci manchi spesso “un senso civico nazionale”.

La mancanza di patriottismo, di senso dello Stato, in Italia è legata anche alle modalità con cui fu fatto il Risorgimento. C’era una nazione senza Stato, e si volle fare uno Stato, ma senza nazione. L’Italia risorgimentale fu costruita dai pochi contro i molti; dalle elite contro i popoli; dai Savoia senza gli altri; dalla borghesia massonica e liberale, contro la Chiesa. Dove c’erano grandi varietà e specificità, si volle creare uno Stato centralista; si delegittimarono scientemente i cattolici, imprigionando e talora uccidendo vescovi e sacerdoti e sequestrando i beni della Chiesa; si volle unire il sud (non senza il contributo di meridionali come Crispi e La Farina), imponendogli lo stato d’assedio, la leva miliare obbligatoria, nuove tasse per ripianare i debiti del Piemonte, sindaci e prefetti piemontesi, la fucilazione di massa dei cosiddetti “briganti”…

Si costruì, in questo modo, un paese in cui non si sentivano partecipi né i cattolici né le masse che ben presto aderiranno al socialismo. In cui all’emigrazione di artisti e poeti, tipica della nostra storia precedente, subentrò l’emigrazione di massa - dal Veneto, dal Friuli, dal Meridione-, di poveracci con le valige di cartone. Si costruì un paese dominato da una elite proterva, che ordinerà di aprire il fuoco sui Fasci siciliani, nel 1893, e poi sui contestatori di Milano, nel 1898.

 Una elite che forse allo scopo di costruire a tavolino una nuova identità, ci spingerà nelle avventure post garibaldine del colonialismo straccione, e porterà poi l’Italia in una guerra mondiale che il popolo non voleva affatto. Scrive lo storico Massimo Viglione nel suo “L’identità ferita”: “Dinnanzi al problema dazegliano di ‘fare gli italiani’, la classe dirigente risorgimentale assunse due opposti atteggiamenti: uno guerrafondaio, adottato dalla Sinistra; l’altro diplomatico e attendista, seguito dalla Destra. Si può dire che Crispi, Salandra, Sonnino e Mussolini tentarono di ‘fare gli italiani’ con la guerra, mentre Spaventa, Sella, Minghetti, Giolitti con le riforme, le infrastrutture, lo sviluppo economico. In fondo, conclude Sergio Romano, anche la Prima guerra fu fatta per ‘fare gli italiani’; e ciò, a sua opinione, è dimostrato dalla indifferenza con cui il governo italiano era pronto ad allearsi con una delle due parti in conflitto, in base al miglior offerente, poiché l’importante era espandersi, ma anzitutto forgiare definitivamente l’unità nazionale mediante il più grande e tragico coinvolgimento delle masse contadine…Scrive in proposito De Ruggiero…: ‘La patria non era ancora compiuta: bisognava compierla. E fu dichiarata guerra”.

La I guerra mondiale portò con sé oltre 600.000 morti, e così, nel primo dopo guerra, il rischio di una rivoluzione bolscevica (biennio rosso), scongiurata solo dalla caduta del nostro paese sotto il fascismo. Che ebbe un merito, far sì che molti si sentissero finalmente, almeno per un po’, italiani, come non era mai accaduto dopo il 1861, ed un grande demerito, quello di aver confuso patriottismo e nazionalismo, fondando quest’ultimo sul mito della Roma imperiale pagana, sulla statolatria moderna e sul culto neopagano, nicciano e neo-machiavellico della forza.

 
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