Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Pur consapevole che in questo modo farei il gioco di una parte politica diversa dalla mia, probabilmente il 12 e 13 giugno mi recherò alle urne, votando "no", tra le altre cose, anche ai quesiti sull’acqua. Ed è in particolare su questo tema che vorrei soffermarmi per motivare la mia scelta - scusandomi sin d’ora se non potrò, come vorrei, esprimermi in sintesi. Ma, d’altra parte, la questione in gioco è troppo rilevante per essere lasciata alla politica degli slogan, dunque mi affido alla clemenza del lettore nella speranza che riconosca, nello scritto, la mia volontà non già di plagiare, bensì di fare, per quanto possibile, chiarezza circa la mia opinione. Onde evitare che si alimenti la già ampia confusione sul tema, partirei dall’unico dato condiviso, che nessuno contesta: i quesiti referendari. Esaminarli uno alla volta potrà aiutarci, spero, a capire meglio di che cosa si sta effettivamente parlando.
Iniziamo col primo: «Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?».
Ora, non serve alcuna preparazione giuridica per capire al volo che l’oggetto del quesito non è – né potrebbe nemmeno essere, in realtà – la possibilità di esprimersi sull’acqua come bene pubblico o privato. Nessuno, a prescindere dall’esito del referendum, potrà mai eccepire sul fatto che l’acqua dei fiumi, dei laghi e delle fonti, sia un bene pubblico. E anche gli scettici possono tranquillizzarsi spulciando il famigerato “Decreto Ronchi”, D.L. 25/9/2009, che all’art.15 comma 1ter, recita: «Tutte le forme di affidamento delle gestione del Servizio idrico integrato di cui all’art.23 bis del d.l. 112/2008 – articolo oggetto del referendum – devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità ed al prezzo del servizio, garantendo diritto all’università ed accessibilità del servizio».
Ma se anche la «piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche», oltre che il «governo», «spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità ed al prezzo del servizio, garantendo diritto all’università ed accessibilità del servizio», dov’è la temuta privatizzazione dell’acqua? Semplice: non c’è (il lettore a questo punto mi perdonerà, spero, per il titolo improprio che ho dato a questo intervento). E difatti il succitato quesito referendario verte su altro, e cioè sulle modalità con cui scegliere chi debba fornire i servizi necessari per portare l’acqua dalle fonti alle case, e quale sia il modo migliore per scegliere l’operatore effettivamente migliore.
Chi voterà “sì” al quesito sopra ricordato, quindi, non difenderà affatto l’acqua come bene comune – lo è già e, abbiamo visto, continuerà ad esserlo – ma darà semplicemente l’assenso a che i servizi idrici continuino, come avviene oggi, ad essere gestiti esclusivamente dai Comuni o dai loro consorzi. Viceversa, chi esprimerà il proprio “no”, non farà altro che pronunciarsi in favore di una scelta, valutata di volta in volta, circa quelle che sono le migliori gestioni della distruzione idrica. Senza credere – a differenza del fronte del “si” – che la mano statale sia necessariamente la risposta giusta. Perché anche la gestione privata, ad alcune condizioni, può essere conveniente. Ma lo stesso parlare di “gestione”, in realtà, rischia di essere, se non sbagliato, fuorviante.
Ciò che il “Decreto Ronchi” prevede, infatti, è il cambiamento delle modalità di individuazione del gestore delle reti idriche – che resteranno anch’esse, così come l’acqua, inequivocabilmente pubbliche : mentre oggi i gestori del servizio idrico vengono scelti tramite affidamenti diretti, anche quando si tratta di società quotate, con questa norma si stabilità una nuova gestione delle reti idriche, con l’obbligo di indire gare d’appalto per i servizi pubblici, tra cui anche quelli idrici. Ovviamente a queste gare potranno partecipare anche le società a capitale pubblico. Capiamo quindi quanto sia propagandistico e menzognero, come si è fatto lungamente in questi mesi, parlare di «privatizzazione dell’acqua».
Ci conforta in questa visione il parere del professor Antonio Massarutto, professore associato di Economia Pubblica all'Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe – acronimo che sta per Istituto di economia e politica dell'energia e dell'ambiente - dell'Università Bocconi, che, nel suo recente intervento al Festival dell’Economia di Trento, ha detto: «Nessuna privatizzazione è in corso: avere imprese private nelle compagini delle gestioni o non averle cambia davvero poco. Il servizio è e resta un servizio pubblico (ci mancherebbe che non fosse così). Tariffe, qualità, priorità di intervento le decide il soggetto pubblico. Solo che, una volta che le ha decise, deve trovare la forma gestionale in grado di farlo nel modo migliore, rispettando gli impegni, non aprendo voragini nei conti, possibilmente usando le risorse con efficienza. A volte il pubblico lo sa fare bene, a volte no. Un po' di trasparenza (quello che le gare porterebbero) male non può fare, soprattutto considerato che la scelta dell'azienda pubblica, anche dopo un'eventuale gara, resta pienamente possibile e legittima» (L’Adige, 4/6/2011, p. 55).
Difficile, mi pare, dissentire da un ragionamento tanto elementare. E i politici cosa pensano? Per evitare accuse di partigianeria, lascerei la parola ad un parlamentare italiano che, pur sedendo nelle fila dell’opposizione, non ama allineamenti preventivi agli ordini di schieramento. Sto parlando di Pietro Ichino, docente universitario nonché senatore del Partito Democratico, il quale – per sbugiardare l’idea, assai opinabile ma purtroppo diffusissima, che affidare ai privati la gestione di un bene pubblico equivalga a sequestrarlo sine die ai cittadini – ha proposto un ragionamento secondo me interessante: «Al pari dell’acqua, anche l’aria è un bene pubblico essenzialissimo. Questo tuttavia non ci impedisce di affidare a un’impresa privata – se necessario, e se l’impresa stessa ci appare la più idonea allo scopo – il compito del condizionamento dell’aria, nel passaggio di questo fluido dall’ambiente esterno a quello interno delle nostre abitazioni o agli uffici di un’azienda. Allo stesso modo, il fatto che l’acqua disponibile in natura sia un bene pubblico essenzialissimo non è davvero incompatibile con l’affidamento a un’impresa privata – sempreché essa risulti essere la più idonea allo scopo – del compito del trasporto del fluido medesimo dalla fonte alla nostra abitazione. Se quel trasporto, invece che essere affidato a un sistema di tubazioni, fosse affidato ad autocisterne, potremmo forse affermare che solo un servizio di autocisterna gestito direttamente dal Comune sia ammissibile? E se ammettiamo, invece, che possa essere più efficiente e comunque ammissibile l’affidamento del servizio di autotrasporto dell’acqua a un vettore privato, perché non dovremmo poter affidare a un operatore privato – se più efficiente, e comunque sotto il costante controllo del committente pubblico – anche la gestione del sistema di trasporto dell’acqua mediante tubazioni? Ciò non toglie ovviamente che, in ciascun caso concreto, debba essere la collettività a scegliere lo strumento meglio rispondente allo scopo, nelle condizioni date: dove l’operatore pubblico offra un servizio migliore, la collettività opterà per quella soluzione. Ma non vedo davvero come dall’affermazione secondo cui l’acqua è un bene pubblico essenzialissimo possa desumersi l’affermazione ulteriore secondo cui il servizio di trasporto dell’acqua dovrebbe necessariamente essere affidato a un operatore pubblico». (http://www.pietroichino.it/?p=13932).
Questi argomenti – proposti, giova ricordarlo, da un politico del Partito Democratico, già eletto parlamentare, anni or sono, nelle file del Partito Comunista Italiano - si possono forse considerare l’apologia della privatizzazione? Chi condivide il pensiero di Ichino spera in realtà che i cittadini meno facoltosi siano assetati? Sono domande – me ne rendo conto – dal tono eccessivo, ma che sorgono spontanee in reazione al clima di questi mesi, durante i quali si sono scomodati a centinaia politici, intellettuali, professori e sacerdoti; una mobilitazione degna di miglior causa. Persino in ambienti cattolici nei quali non si è mai mossa, in questi anni, una foglia per la sensibilizzazione su temi «non negoziabili» – e dunque ben più decisivi, per la vita umana - come l’aborto, l’eutanasia o la fecondazione assistita, molti sono usciti dal loro letargo “politicamente corretto” con la stessa aria terrorizzata di chi, da un giorno all’altro, potrebbe trovarsi un lucchetto ai lavandini oppure rubinetti a gettoni.
E pensare che, come stiamo iniziando a capire, in realtà il “Decreto Ronchi” - a dispetto dell’operato politico, a parer mio, non sempre entusiasmante del suo autore – non determinerà affatto, se sopravivrà al referendum, alcun peggioramento delle attuali condizioni del servizio idrico. Che sono già – queste sì – tangibilmente critiche: nel solo 2008, secondo l’Istituto Centrale di Statistica sulla rete d’acqua potabile italiana si sono registrate perdite per il 47%. In parole povere, allo stato, siamo nelle condizioni di utilizzare appena la metà dell’acqua disponibile. Uno spreco disastroso. Uno spreco pubblico. Uno spreco che la dice lunga sulla bella situazione che i promotori del referendum, volenti o nolenti, stanno difendendo. Ma andiamo avanti.
Passiamo ora al secondo quesito: «Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?»
Ora, anche su questo quesito urgono precisazioni interessanti. Anzitutto si annota come la norma che i promotori del referendum sperano di abrogare, di fatto, riprenda pedissequamente quanto già disposto dalla cosiddetta “Legge Galli” (in particolare: art. 13, comma1, delle Legge 5/1/1994, n. 36), che prevede che la tariffa del servizio idrico intergrato sia determinata, tra le altre cose, tenendo conto «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione» e che fu approvata, a suo tempo, da un governo di centro-sinistra presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Perché, allora, molti politici si inalberano sulla questione con decenni di ritardo? E soprattutto perché lo fanno i simpatizzanti e gli esponenti dell’Italia dei Valori, dal momento che fu proprio l’allora Ministro Antonio Di Pietro, ai tempi del primo Governo Prodi, provvedendo con decreto 1.8.1996 a determinare – in riferimento al comma 3 dell’art. 13 della legge 36/1994 – le componenti di costo della tariffa prevedendo una percentuale del 7% sul capitale investito, che costituisce il “profitto” per il gestore (pubblico o privato) che i referendari, capeggiati anche dallo stesso Di Pietro, contestano.
Siamo alle comiche, insomma. Anche perché nessun governo di centro-sinistra - ultimo quello del 2006 - ha mai anche solo pensato a rivedere queste norme, oggi divenute per molti – chissà come mai – ragione di scandalo civile. Tornando al merito del quesito, non si può non notare come questo appaia motivato dall’idea che una “adeguata remunerazione del capitale investito” comporti inevitabilmente prezzi dei servizi idrici maggiori. Ma se fosse vero che il prezzo aumenta per colpa del profitto - è stato osservato da più parti - sarebbe vero anche per qualsiasi altra attività economica: anche le case, le automobili, il pane e gli abiti costerebbero di meno se fossero prodotti da un soggetto pubblico che non remunera il capitale investito.
Peccato che questo ragionamento, in termini concreti, ci riporterebbe ai bei tempi, si fa per dire, dell’Unione Sovietica. Occorre dunque intendersi sul significato di “profitto” che, in un mercato realmente concorrenziale, rappresenta il costo-opportunità del capitale e il premio per l’imprenditore che riesce a produrre lo stesso valore degli altri con costi più bassi (o un valore più alto agli stessi costi). Viceversa, in un mercato monopolistico non regolato, il profitto è gonfiato dalla rendita di monopolio. Ora, come abbiamo ricordato più volte, nel settore idrico le possibilità di sfruttare la concorrenza sono espressamente limitate alla fase di affidamento del servizio, ma una buona regolazione può aiutare non poco.
Anche perché non ci si può esimere dal ricordare che se il quesito in parola, per ipotesi, venisse approvato, con l’eliminazione dell’attuale 7% di “profitto” per il gestore (pubblico o privato) del servizio idrico, si determinerebbe una sola possibilità: l’onere, per lo Stato e egli enti locali, di investire 60 miliardi di euro nei prossimi venti anni per il miglioramento delle infrastrutture idriche nazionali. E come potrebbero fare lo Stato e gli Enti locali ad avviare un simile investimento senza aumentare le tasse oppure operando altrove i sempre deprecati “tagli”? Su questo passaggio i promotori del referendum, stranamente, nicchiano. Così come evitano puntualmente di raccontare come le tariffe sull’acqua, dal 2000 al 2006, siano già cresciute del 47% pur in assenza di investimenti, che sono rimasti solo promessi. Tanto è vero che, lo ricordavamo poc’anzi, la situazione idrica generale è oggi disastrosa. Ma viene appunto difesa a spada tratta evocando lo spettro di aumenti che già ci sono, in assenza però – e qui sta la beffa – di reali miglioramenti del sistema idrico.
Conviene continuare su questa strada? Magari sbaglio, ma credo che quanto prevede il contestato “Decreto Ronchi”, alla fine, sia un’opportunità e non un ostacolo da rimuovere a colpi di consultazioni referendarie. Ecco perché, se andrò a votare, di certo voterò “no” ai primi due quesiti sull’acqua, invitando tutti coloro che, pur amando l’acqua, si riconoscono – come il sottoscritto – negli Apoti di Prezzolini, «coloro che non la bevono», a fare altrettanto.