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Per chi ha qualche capello grigio, il nome del cardinale Alfredo Ottaviani susciterà forse vecchi ricordi su che cosa era la Chiesa appena mezzo secolo fa e sul fatto che tra i suoi massimi rappresentanti vi fosse proprio la figura di questo eminente cardinale.
L’uomo certamente più potente, dopo il Papa, nella Chiesa del suo tempo; uno strenuo difensore della religione, contro ogni forma di prevaricazione dottrinale. Non per nulla venne soprannominato da amici e nemici il “carabiniere”, appellativo che ben si addiceva alla sua indole e al suo atteggiamento di fermezza e di fedeltà alla Chiesa, alla quale non venne mai meno, specialmente davanti alla crisi di valori che si andavano accentuando in quel cosiddetto secolo breve che fu il ‘900.
E se qualcuno pensasse di beatificarlo? La mia, lo affermo subito, è una pacifica provocazione, per non dimenticare un difensore della Chiesa o, almeno, della Chiesa che fino a quel tempo aveva servito. Infatti difficilmente, visti i tempi, crediamo che alcuno possa avviare con successo questa pratica di beatificazione. Ciò nonostante, ritengo che figure che hanno segnato la storia della Chiesa con totale abnegazione, debbano essere ricordate senza barriere ideologiche come ci ricorda lo stesso Giovanni Paolo II nell’omelia che pronunciò proprio il giorno dei suoi funerali, nel 1979: “Sempre disponibile, sempre pronto a servire la Chiesa, La sua esistenza si è letteralmente spesa per il bene della Chiesa santa di Dio. Il nostro fratello fu in tutto e sempre “homo Dei, ad omne opus bonum instructus” (2Tm 3,16) e questo, sì, questo è un riferimento d’ordine essenziale, questo è un parametro valido per ben inquadrarne la fisionomia spirituale e morale. La sua preparazione giuridica, che già in età giovanile gli aveva garantito l’attenzione di altri sacerdoti, lo sostenne nel lavoro che svolse a difesa della Fede Cattolica “.
Parole, crediamo, che si commentano da sole sull’uomo, la sua opera e la sua fede. Era nato povero, nel caratteristico quartiere di Trastevere, il 29 ottobre del 1890, dunque “un romano de Roma” che non dimenticò mai le sue origini popolari.
Nella sua vita non arricchì nessuno, tanto meno sé stesso. Alla sua morte ciò che aveva lo lasciò interamente alla Chiesa e alla varie opere di carità cui aveva dato il suo aiuto. Sembrava un ragazzo destinato ad una vita come tante nel quartiere: un lavoro, una famiglia e chissà cos’altro. Invece un giorno la sua vita cambiò e, tra lo stupore dei suoi amici, entrò in semiario, per essere consacrato sacerdote nel 1916 a ventisei anni.
Nel corso degli anni di preparazione al sacerdozio, si fece notare per la sua serietà, intelligenza e capacità di studiare e di apprendere, ma soprattutto per una vita profondamente cristiana, per un amore totale per la Chiesa e per il Papa. Un atteggiamento quest’ultimo che non cambiò mai, nonostante le dure prove che il destino gli avrebbe inferto proprio dal quel “Soglio” tanto amato e venerato. Le sue doti non sfuggirono ai superiori, e così, non ancora trentenne, fu nominato prima professore di filosofia scolastica presso il Pontificio Collegio Urbaniano e, pochi anni dopo, professore di Diritto Pubblico Ecclesiastico, materia di cui fu sempre considerato grande esperto, presso l’Ateneo Giuridico dell’Apollinare.
Nel 1921 entrò nella Segreteria di Stato collaborando con il cardinale Pietro Gasparri alla stesura del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano, firmato nel 1929, partecipando a tutte le commissioni preparatorie. La Segreteria di Stato, come ricorderà nei suoi diari, fu per lui un osservatorio ed una scuola di vita eccezionale, che gli permise di vedere esattamente come andava il mondo e come la Chiesa doveva destreggiarsi per non rimanere schiacciata dagli avvenimenti della storia senza perdere la sua missione. In quel periodo ebbe alle sue dipendenze come minutante un giovane bresciano serio, diligente ed attento nel lavoro: si chiamava Giovan Battista Montini, che trent’anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di Paolo VI.
Tra i due non ci fu mai simpatia e una volta diventato papa, Montini non dissimulò mai i suoi sentimenti verso Ottaviani, simbolo di una Chiesa conservatrice. Dopo aver lavorato per quasi quattordici anni nella diplomazia vaticana, sempre con incarichi di grande prestigio, nel 1935 entrò per la prima volta come assessore presso il Sant’Uffizio.
Un luogo che rimase, fino alla morte, il suo campo di battaglia contro i nemici della Chiesa. Quello stesso anno, però, dovette subire anche un delicato intervento agli occhi che lo condizionò per tutta la vita, portandolo negli ultimi anni alla completa cecità. Conoscendo le sue doti giuridiche, Pio XI lo volle vicino a se nella stesura dell’enciclica Divini Redemptoris missio dove si definiva il comunismo ateo “intrinsecamente perverso”. L’anticomunismo, Ottaviani lo manifestò tutta la vita, senza alcun distinguo o tentennamento. Vedeva nell’ideologia marxista un’offesa alla legge di Dio e una tragedia per l’intera umanità.
Fu, quasi vent’anni dopo, tra i propugnatori della celebre scomunica del 1949 voluta da Pio XII contro i comunisti, ma ciò nonostante fece sempre la differenza tra il peccato ed il peccatore e curiosamente mantenne un rapporto di grande stima, sempre ricambiata, con Palmiro Togliatti fino alla morte di quest’ultimo.
Sostenitore della romanità, non riteneva opportuno il dialogo con le ideologie radicalmente ostili e inconciliabili con la fede. Non era solo il comunismo, ma anche i suoi “frutti avvelenati”, come li chiamava, che si andavano espandendo anche all’interno della Chiesa stessa.
Richiamò con fermezza quelle frange di cattolici progressisti, nonché i promotori, tedeschi e francesi, della cosiddetta nouvelle théologie che manifestarono, qualche decennio dopo, tutta la loro capacità comunicativa durante le assise conciliari. Pur rimanendo il comunismo il suo vero nemico, non fu meno tenero con le ideologie fasciste e naziste.
Fu tra i prelati che consigliarono Pio XI di non ricevere Hitler in Vaticano durante la sua visita di Stato a Roma nel 1938.
Tra il 1943 e il 1945, attraverso una serie di operazioni umanitarie approvate da Pio XII, riuscì a portare sollievo alle popolazioni martoriate dalla guerra, proteggendo ebrei perseguitati ed antifascisti – senza differenza di colore politico – presso chiese e conventi. Da un documento scoperto negli archivi segreti vaticani risulta che le autorità fasciste denunciarono nel 1944 alla Santa Sede la sua attività filo-ebraica e che un fascicolo su di lui era presso il comando della Gestapo a Roma, ma Alfredo Ottaviani andò dritto per la sua strada e la storia gli dette ragione. L’Italia era uscita stremata dalla guerra: rovine, povertà, disperazione, malcontento.
Erano i frutti lasciati dalla follia dell’assurdo conflitto, ma ora bisognava ricostruire non solo vita pratica degli italiani, ma anche la vita morale. Ottaviani non dimenticò mai le sue radici popolari. Fu uomo di grande sensibilità pastorale, specialmente verso i ragazzi dell’oratorio di San Pietro, spesso in condizioni disagiate, ai quali pagava le rette per lo studio, le tasse per lo sport: per tanti giovani fu come un padre sollecito ed affettuoso. Un dovere di carità che nasceva dalla sua vocazione sacerdotale, che non aveva mai dimenticato.
Nel 1947 Pio XII lo volle pro Prefetto del Sant’Uffizio dove, prima della riforma voluta da Paolo VI nel 1965, era Prefetto lo stesso Papa. Spesso si dice che il Concilio aperto da Giovanni XXIII in realtà era stato voluto dallo stesso Pio XII, che nessuno certo poteva accusare di modernismo. In realtà le cose non stanno proprio così. È vero che papa Pacelli voleva indire un Concilio: infatti, il 4 marzo del 1948, chiamò in gran segreto il cardinale Ottaviani per costituire una Commissione preparatoria per un eventuale prossimo Concilio ecumenico.
Non “per aprirsi al mondo”, come fu poi deciso da Giovanni XXIII, ma, al contrario, per ridefinire i vari punti della dottrina cristiana minacciati dalle “Nouvelle Théologie”. Purtroppo, man mano che i lavori proseguivano, cominciarono a nascere le prime divergenze che ben presto diventarono insanabili, anche a livello personale.
Erano i prodromi di ciò che sarebbe successo di lì a qualche anno, con le assise del Vaticano II. Davanti a questo spettacolo inammissibile, lo stesso Pacelli, sotto consiglio dello stesso Ottaviani, decise di chiudere quest’esperienza preparatoria per il Concili, comprendendo il pericolo che si poteva innescare. Passeranno pochissimi anni e i timori di Ottaviani si manifestarono nel 1958, quando Giovanni XXIII volle indire il Concilio Vaticano II.
Momenti vissuti dal nostro cardinale con grande apprensione ed assai lontano dall’ ottimismo di papa Giovanni XXIII. “Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. – dichiarò nel discorso d’apertura papa Roncalli - È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente! Tutto qui spira santità, suscita esultanza”. Uomo schietto e concreto, Ottaviani definì il Concilio più che “una nuova aurora per l’umanità, una lunga notte per la Chiesa”.
Nel suo diario, il cardinale scriveva, nell’estate del 1965, pochi mesi prima della chiusura dei lavori conciliari con grande amarezza: “Prego Dio di farmi morire prima della fine di questo Concilio, così almeno muoio cattolico”.
Parole dure che disegnano la visione che egli aveva dell’avventura del Concilio. Oggi, a quasi cinquant’anni da quegli eventi, ognuno, dal suo punto di vista, può serenamente valutarne i frutti senza inutili barriere ideologiche. Per descrivere gli anni di quel Concilio e l’opera di Ottaviani e dei cardinali a lui fedeli contro le fughe in avanti dei cattolici progressisti, non basterebbe un libro.
Quelli, per l’ormai vecchio cardinale, furono anni durissimi anche per la sua oramai totale cecità che non gli permise di seguire tutti i lavori conciliari come voleva. Un episodio, tra i tanti, credo possa illustrare bene l’atmosfera che si era creata. Il cardinal Ottaviani stava intervenendo il 30 ottobre del 1962 per protestare contro le modifiche che alcuni proponevano di far subire alla Messa. Affermò tra l’altro: “Stiamo cercando di suscitare il disorientamento e lo scandalo nel popolo cristiano, introducendo delle modifiche in un rito così venerabile, che è stato approvato lungo tanti secoli e che è ora divenuto così familiare? Non si può trattare la Santa Messa come se fosse un pezzo di stoffa che si rimette seguendo la moda, secondo la fantasia di ciascuna generazione”.
Ottaviani – era cieco e non poteva leggere – superò i dieci minuti concessi, cosa che l’assemblea aveva accettato per l’autorevolezza del personaggio e per la sua evidente menomazione.
Il cardinal Alfrink che presiedeva l’assemblea, suonò il suo campanello di richiamo per i minuti sforati, ma Ottaviani, così preso dal discorso non lo sentì (i maligni dissero poi che lo avesse intenzionalmente ignorato). Spazientito, il cardinal Alfrink, fece un cenno ad un tecnico che staccò il microfono dell’oratore, come si fa per tacitare un seccatore.
A quel punto il cardinal Ottaviani prese atto dell’accaduto e, umiliato, si rimise a sedere. Il più potente cardinale della Curia era stato ridotto al silenzio. Ci fu un attimo di suspense, poi parte dei padri conciliari applaudirono di gioia. La “Chiesa della conservazione” era stata umiliata per sempre nella figura del suo maggiore rappresentante. Così scrissero molti giornali italiani e stranieri.
Anche se la Chiesa che aveva servito per oltre cinquant’anni non era più la stessa, Ottaviani difese sempre e comunque l’istituzione. A chi gli domandava dei suoi “nemici” rispondeva sempre “Ci sono contrasti non personali, ma di idee”.
Lo stesso atteggiamento lo ebbe per Giovanni XXIII e Paolo VI che certo non gli furono amici, ma per i quali portò sempre immutato e assoluto rispetto. Ebbe parole di difesa e di amore verso tutti i successori di Pietro, nonostante le amare delusioni che vennero per lui dal quel “sacro Soglio”.
Nel 1968 si dimise dal suo incarico di Prefetto del Sant’Uffizio per motivi di salute, rimanendone membro emerito, ma ormai senza alcun potere. Grazie alla sua notorietà, finché fu in vita, non si tirò mai indietro nel denunciare una Chiesa che, a suo dire, era ormai allo sbando.
Negli anni ’70 andava a trovare spesso, salute permettendo, tra gli altri, un francescano, padre Coccia che celebrava, pur tra mille difficoltà, la Messa tridentina nella Chiesa di san Girolamo della Carità a Roma (eravamo tanti ragazzi, allora, a parteciparvi).
Ottaviani aveva parole di incoraggiamento invitandoci sempre ad avere fiducia e amore nella Chiesa e nei suoi rappresentanti. “L’obbedienza per un cristiano – diceva – deve essere sempre al primo posto. Senza di essa c’è solo disordine. Se gli altri non ubbidiscono, voi siate ubbidienti alla Chiesa anche per loro”.
Morì il 3 agosto del 1979 dopo aver visto succedersi sul soglio di Pietro ben nove papi; da Leone XIII a Giovanni Paolo II. Oggi la sua tomba si trova nella chiesa di San Salvatore in Ossibus, proprio dove esiste il confine tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano. (per la rubrica PENSIERI & PAROLE Rai Vaticano, Marzo 21, 2011 di A. Cannarozzo, riportato da messainlatino.it)