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Il coraggio di un discorso
Di Lorenzo Bertocchi - 11/05/2011 - Segnalazioni librarie - 1507 visite - 0 commenti

Eodem sensu eademque sententia”. Questo è il passo di San Vincenzo di Lerins che risuona nelle opere di Mons. Brunero Gherardini. “Nello stesso senso e nel medesimo significato”, è la chiave interpretativa che il teologo della gloriosa Scuola Romana richiama più volte nella sua coraggiosa ricerca teologica sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.

L’altro punto fermo che penso sia necessario considerare affrontando il lavoro di Gherardini riguarda la preoccupazione sincera che anima l’autore rispetto alla crisi nella Chiesa, quella che molti ritengono gravissima. O si riconosce la profondità e l’ampiezza di tale crisi, oppure difficilmente si potrà capire il lavoro e lo sforzo del teologo toscano.

Nel 2009 con il suo primo libro sul tema egli proponeva un “discorso da fare”, oggi - “Concilio Vaticano II. Il discorso mancato” (Ed. Lindau - 2011) – quella proposta gli pare un occasione persa, perchè come risposta al suo appello registra prevalentemente il ripetersi di una specie di refrain, e cioè che la crisi nella Chiesa ha radici soltanto nel post-concilio, là dove si è affermata una interpretazione deviata dei documenti conciliari.

Mons. Gherardini non nega che vi sia stato l’abuso post-conciliare, questo ormai è un dato acquisito, ma cosa ha permesso che nella prassi si sviluppassero due interpretazioni contrapposte? Dove sono le radici di questi abusi? Qui si colloca il “discorso da fare” che propone Gherardini, il quale sa bene che una malapianta non viene estirpata semplicemente potandola.

Personalmente credo che questa sua proposta di ricerca sia del tutto ragionevole e anziché emarginarlo sarebbe meglio ascoltarne il suggerimento, ossia “prendersi tutti la testa fra le mani per decidere finalmente di mettere un po’ d’ordine nel disordinato andazzo di questo interminabile e sempre inossidabile post-concilio” (pag. 78).

Mons. Gherardini riconosce il Concilio Vaticano II come ecumenico e trae la ovvia conseguenza di considerarne il magistero come conciliare e solenne, ma di per sé – e il “ma” è assai rilevante – questo non depone affatto per una sua completa e totale dogmaticità e infallibilità. Ammetto che il discorso si fa complesso e impervio, ma proprio qui l’autore colloca il “discorso mancato”, infatti, più che l’avvio di un dibattito storico, teologico e filosofico sul tema, egli nota un pullulare di voci che di fatto si collocano nella scia del filone celebrativo del Concilio, voci che non aggiungono gran che alle questioni da risolvere.

Sembra che più che cercar di distinguere e capire, si sia preferito squalificare i presupposti del “discorso”, ma Gherardini, pur non nascondendo una certa delusione, prova a comunque a rilanciare.

Le principali piste di analisi proposte dall’autore credo possono essere ricondotte a due: la distinzione della qualità dei diversi documenti conciliari e la individuazione di quattro livelli in cui analizzare il concilio (generico, pastorale, di appello ai precedenti concili e quello delle innovazioni). Nell’analisi di Gherardini mi pare che il nodo fondamentale da sciogliere riguardi soprattutto il tema delle “innovazioni” introdotte dal Concilio, qui è particolarmente rilevante il problema interpretativo, tema connesso anche alla questione della dogmaticità/infallibilità del magistero.

L’autore risolve questo nodo sottoponendo le “innovazioni” al vaglio di quel principio - “eodem sensu eademque sententia” – che dovrebbe garantire l’aggiornamento rispetto alla fedeltà alla dottrina di sempre. In ultima analisi sembra che il problema venga sciolto con una espressione quasi sofferta, ma coraggiosamente chiara: “filologicamente, storicamente, esegeticamente e teologicamente – scrive Gherardini - si stenta, arrancando e ansimando come su di una salita impervia, a trovar una giustificazione per: la collegialità dei vescovi espressa dalla costituzione Lumen Gentium, il nuovo rapporto tra Scrittura e Tradizione indicato dalla costituzione Dei Verbum e le innovazioni attinenti la sacra liturgia, la soteriologia, il rapporto tra cristianesimo e giudaismo, islamismo e religioni in genere.” (pag. 96). Egli quindi dichiara di non poter assolutamente applicare l’aggettivo “dogmatico” a quello che lui indica come quarto livello del Concilio, quello delle “innovazioni”.

A questo punto entra in gioco l’altro argomento controverso, quello dei diversi livelli del magistero in rapporto al Vaticano II e anche in questo caso, come già osservato, la proposta di  Gherardini è precisa: magistero conciliare e perciò solenne, ma di per sé non dogmatico e infallibile.

C’è chi ha scritto che quello di Gherardini non è un discorso, ma soltanto un denigrare, francamente mi sembra un giudizio un po’ troppo tranchant, certo le questioni poste sono piuttosto spinose, ma da semplice fedele mi preme sottolineare un punto che credo non debba mai esser perso di vista.

Il Vaticano II voleva andare incontro all’uomo moderno, abbracciarne le istanze, parlare il suo stesso linguaggio, esaltarne la dignità e così riconciliarlo con Dio, ebbene dopo quasi 50 anni siamo di fronte al fatto che molti uomini vivono “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Con questa realtà è necessario fare i conti, non si tratta di pessimismo, ma di quel sano realismo cattolico che ha sempre caratterizzato la Chiesa nel compimento della Sua missione: “che si convertano e credano al Vangelo”.

Grazie a uomini come Mons. Gherardini la discussione ha preso quota, alzandosi rispetto ad un andamento un po’ troppo soporifero e privo di quel sano nerbo che, in fin dei conti, è zelo per le anime.

 
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