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1) Tre conversioni
2) Follie del gender
1) Voglia di spiritualità, di misticismo, di allontanamento dalle cose di tutti i giorni, e più che mai dall'eccessiva esposizione di sé.
Tre storie che partono dalla celebrità, di vario grado, e finiscono con la scelta di una vita dedicata al ritiro spirituale. Storie inevitabilmente guardate con sospetto, in questi tempi in cui anche le peggiori tragedie divengono l'occasione buona per piangere in diretta tv e strappare il warholiano quarto d'ora di celebrità.
Sono le storie di Claudia Koll, Anna Nobili e Daniela Rosati.
Dalle discoteche alla danza cristiana - Oggi suor Anna Nobili lavora nella comunità Palestrina, tiene corsi di danza cristiana, come l'ha battezzata lei, e vive di preghiera di spettacoli all'ombra dell'altare. Nata nel 1970 in Puglia, per diverso tempo ha vissuto a Milano, dove la sua passione per il ballo e un fisico scolpito a suon di esercizi di tecnica di ballo l'hanno portata a diventare un'attrazione tra i frequentatori dei locali notturni della capitale meneghina. Anni in cui la giovane Anna si esibiva anche nei privé, per la gioia degli avventori dei centri del piacere nottambulo. Gli sguardi scorrevano sul suo corpo sudato e lei li viveva senza alcun imbarazzo, fino a quando, dopo diverse apparizioni in Rai e a Mediaset, la Nobili ha capito di essere arrivata al capolinea con quella vita di puro edonismo. Presi i voti dell'ordine delle Operaie della santa casa di Nazaret, oggi fa una vita di preghiera e ha creato una speciale coreografia per raccontare con la danza la sua conversione. Un piccolo evento in totale controtendenza rispetto a quanto fa notizia al giorno d'oggi.
Claudia, lontanissima da Tinto -Già nota la storia di Claudia Koll, alias Claudia Colacione, cominciata per il grande pubblico con il film Così fan tutte di Tinto Brass, dove l'attrice fa splendida mostra di sé e non va per il sottile nel mostrare il proprio corpo in una storia tutta incentrata sulle gioie del sesso vissuto da tergo. A seguire, diverse parti in fiction televisive e la conduzione di un festival di Sanremo. Ma, ancora una volta, non era quello il genere di attenzione a cui la Koll ambiva. Durante un difficile periodo di sofferenza, insoddisfazione e depressione, Claudia Colacione ha deciso di dire basta con il nudo e l'erotismo, per darsi alla vita religiosa. Oggi dice di essere rinata e di vivere per sacrificarsi a favore degli altri, in nome di Gesù Cristo.
Rosati, ovvero Oblata - Qualche settimana fa, in diretta televisiva (con inevitabili critiche a seguire), Daniela Rosati ha deciso di raccontare la sua decisione di prendere il velo monacale, aderendo all'ordine di Santa Brigida. La ex conduttrice televisiva, ed ex moglie dell'amministratore delegato del Milan Adriano Galliani, già batterista per diletto, non entrerà in monastero, ma continuerà ad osservare la castità assoluta che dice di perseguire da cinque anni, impegnandosi a seguire i precetti dell'ordine. Addio tv, addio trucco vistoso, addio celebrità televisiva. L'elenco dei personaggi conosciuti che decide di autodisciplinarsi ferreamente e di vivere una vita essenziale va allungandosi. Come la lista dei commenti circa questa scelta di vita. Fonte:Tiscali
2)
Ma la progressiva depatologizzazione dei vari “generi” o orientamenti sessuali come “varianti” equivalenti da parte dell’ideologia gender sta portando ad una rinegoziazione non scientifica ma filosofica e politica del concetto di GID come “disordine”: in effetti se ogni variante di genere rappresenta una opzione, una scelta soggettiva e soggettivabile, a prescindere dal biologico, come teorizzata da Michel Foucault ed estremizzato dalla filosofa del femminismo lesbico radicale Judith Butler, allora non ha senso porre un limite a questa possibilità di scelta del sesso a cui appartenere, neppure per motivi di età. Su questo tema si stanno confrontando i grandi nomi del gotha psichiatrico e psicoanalitico americano alle prese con la revisione del cosiddetto “ DSM IV”, manuale-vangelo dei disturbi mentali, senza peraltro che il grande pubblico si possa rendere conto del calibro dell’argomento trattato, che rappresenta il cuore dell’antropologia, e la pretesa di contrapporre dialetticamente natura e cultura.
Ed ecco la proposta di “congelare” la natura (lo sviluppo puberale) per favorire la “scelta” (l’opzione, il desiderio), come se il desiderio abitasse un contenitore astratto e neutrale e non emanasse piuttosto da un soggetto oggettivamente sessuato. Che il processo di sessuazione psichica preveda l’emersione dall’ambivalenza androgina e più in generale che crescere e “diventare grandi” preveda l’accettazione dei limiti del reale dovrebbe essere un'acquisizione condivisibile in una società pienamente umana, in cui ragionevolezza ed emozione, pulsione e capacità di controllo trovano un punto di equilibrio. Diventa invece un rinforzo dell’utopia della completa autodeterminazione, del delirio di onnipotenza il pensare di poter congelare con una iniezione i meccanismi biologici puberali che ci rimandano alla dicotomia binaria del maschile e del femminile.
Lo sviluppo puberale infatti, al di là di uno psichismo che può essere ferito e sganciato dal reale come nel GID, (come può essere peraltro quello di un soggetto che immerso nella fantasia o nel sogno può immaginare di essere uccello, o gatto, o sasso…) ricorda, poco intellettualisticamente e molto realisticamente, a noi adulti spesso ideologizzati che noi “siamo” il corpo e non uno psichismo “intrappolato” nel limite del corpo, come certa neo-gnosi ci propone.
Al di la di complesse considerazioni filosofiche o metafore esistenziali, gli esperti della disforia di genere infantile (da Zucker a Cohen Kettenis) ci ricordano nella letteratura scientifica come il GID possa “guarire” spontaneamente (talvolta allentando la attenzione esasperata sulle manifestazioni di “non conformità di genere” dei piccoli pazienti) o con adeguata terapia (soprattutto sistemica, cioè non primariamente focalizzata sul bambino confuso quanto piuttosto sulla sua costellazione familiare e relazionale). L’esperienza fallimentare della clinica per la “trasformazione del sesso” della John Hopkins University di Baltimora, chiusa dopo avere verificato la mancata risoluzione del disagio dei tanti soggetti adulti con GID chirurgicamente trattati sulla scia delle teorie sessuologiche della preponderanza della identità di genere sul biologico derivate da Money, dovrebbero indurre una prudenza, o con parole rubate ad una enciclica ad esercitare “Caritas in veritate”. Cautela rispetto e prudenza rispetto ad opzioni volte ad enfatizzare la possibilità di “scegliersi” il sesso a cui appartenere, come se il genere fosse un abito da scegliere ed indossare e non piuttosto un seme ricevuto da far “fruttificare” secondo la sua natura, tenendo conto, con delicatezza ed empatia, mai sganciandosi dalla realtà dei fatti, delle eventuali condizioni climatiche favorevoli o avverse in cui questo seme si sia venuto a trovare nel suo processo di sviluppo.
Urge un momento di seria autocritica e di responsabilità da parte del mondo clinico, medico e biologico, per affrontare con realismo, scrollandosi di dosso le pressioni politiche e dell’attivismo militante il tema fondante della identità sessuale e di genere, senza far pagare ai piccoli (i bambini confusi del GID) lo scotto delle nostre sovrastrutture ideologiche a pretesa unisex o pansessuale di stampo gender.
Fonte: di Chiara Aztori, La bussola