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Nel giro di pochi giorni il suo nome, come spesso capita all’indomani di una tragedia, verrà dimenticato e saranno in pochi a ricordarsi di lei e della sua orribile fine. Per questo credo sia importante, prima che il tempo ne sbiadisca la memoria, soffermarsi sulla vicenda di Hena Akhter, una ragazzina del Bangladesh morta due volte. La prima a causa dello stupro subito dal cugino, avvenuto quando Hena, una sera, uscì per raggiungere il bagno esterno alla sua capanna. La seconda, ancora più drammatica, in seguito alle 101 frustate che l’imam del posto - riconosciuta la giovane colpevole di aver avuto un rapporto con un uomo sposato - ha ritenuto opportuno che le fossero inferte. Morale: Hena sviene sotto le frustate e dopo qualche giorno, ricoverata in ospedale, si spegne. Per la seconda ed ultima volta. Era il 31 gennaio scorso.
Ma non finisce qui. Un ulteriore colpo di scena, infatti, giunge dal gruppo di quattro medici che conducono l’autopsia sul corpo della giovane e che arrivano, non si sa come, a scrivere nel loro rapporto che Hena sarebbe priva di lesioni ed a supporre che sarebbe morta per suicidio. Una conclusione talmente assurda che già il giorno seguente viene sconfessata da un secondo rapporto autoptico che accerta inequivocabilmente come la ragazza sia morta per dissanguamento. Coloro che hanno tentato di occultare il suo dramma, a quanto si sa, verranno processati dalle autorità, le quali ora comprensibilmente faticano ad arginare il clamore per questa vicenda così spaventosa e bestiale.
Ora, storie simili, per quanto assurde, non sono purtroppo rare in un mondo dove vige ancora la shari'a. Ma la tragedia di Hena, a ben vedere, è troppo grande per essere ascritta al solo fanatismo islamico, richiede una riflessione supplementare, che ci si interroghi a fondo sul volto osceno della crudeltà. Chi ha ucciso davvero quella giovane donna? Che cosa ha spinto Shilpi, sua madre, a rivolgersi lei stessa al consiglio degli anziani del paese per un giudizio sulla figlia appena violentata? L’impressione è che tutti i protagonisti di questa storia allucinante – il cugino molestatore, la madre, le autorità religiose locali, i medici corrotti – abbiano agito, ciascuno a suo modo, come rapiti da regole ancestrali e lontane dalla coscienza, in balia della loro stessa mostruosità.
Quando Hannah Arendt presenziò al processo di Eichmann fu grande, in lei, lo stupore per la scoperta di una malvagità anonima, distaccata, priva di orizzonti vendicativi. Lo stesso potremmo dire per i carnefici della fanciulla del Bangladesh. Una simile concatenazione di atti bestiali, infatti, inquieta infinitamente perché sfugge ad ogni classificazione morale e costringe tutti a chiedersi se la nostra umanità esista sul serio o sia solo un convincimento civile ed effimero, che si può sgretolare alla prima occasione. A rendere ancora più orribile e banale tutto questo, infine, una constatazione: per evitare la tragedia sarebbe bastato, molto semplicemente, che qualcuno guardasse gli occhi di Hena. Avrebbe subito compreso la follia che stava commettendo, dinnanzi ad uno sguardo identico al proprio; anzi, più bello. Perché negli occhi di un innocente la verità ha sempre una luce diversa, speciale.