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La scuola? Così non va
Di Giulia Tanel - 20/03/2011 - Segnalazioni librarie - 1194 visite - 0 commenti
In queste ultime settimane si è discusso molto della scuola: pubblica, privata, paritaria, statale… tanti termini, tanta confusione. Con il suo Togliamo il disturbo – Saggio sulla libertà di non studiare (Ed. Guanda, 2011), la professoressa di liceo e scrittrice Paola Mastrocola cerca di mettere alcuni punti fermi; e lo fa vedendo la scuola dall’interno, con gli occhi di una persona che, da anni e quotidianamente, entra in classe e si siede alla cattedra.

I temi trattati dalla Mastrocola sono tanti, ognuno dei quali meriterebbe un articolo a sé.
Naturalmente non tutte le idee espresse dall’autrice sono parimenti condivisibili, ma nel complesso il libro risulta essere bilanciato e molto ben argomentato.
L’idea di fondo è che la scuola, così com’è ora, non funziona. L’istituzione scolastica odierna è frutto del Sessantotto, della massificazione forzata in nome della democrazia, della convinzione che studiare sia un “diritto” e del pregiudizio secondo cui chi fa un lavoro manuale vale necessariamente meno di un laureato…
Di fronte a tutto questo, l’Autrice s’interroga: è veramente giusto portare avanti l’idea che tutti debbano studiare? Perché non ci si può arrendere di fronte all’evidenza che alcuni giovani non sono portati per lo studio, bensì hanno un’inclinazione verso i lavori pratici? E soprattutto: questa scuola che deve essere per tutti – e quindi, necessariamente, di scarsa qualità – a chi serve? Di sicuro non ai giovani, che escono dall’università avendo nozioni di poco maggiori (e, in alcuni casi, addirittura inferiori) rispetto a ciò che cinquant’anni fa si sapeva uscendo da un buon liceo; forse serve allo Stato per parcheggiare i giovani; o forse serve alle famiglie, che possono dormire sonni tranquilli sapendo che il proprio pargoletto ha la laurea…

Togliamo il disturbo – Saggio sulla libertà di non studiare è articolato in tre parti.
Nella prima sezione la Mastrocola dà una panoramica di quelli che sono i comportamenti e le problematiche più comuni tra i giovani di oggi; i punti trattati vanno dall’incapacità dei ragazzi di scrivere, alla loro totale passività nei confronti della scuola, passando attraverso le lezioni private, le nuove tecnologie, il ruolo delle famiglie e la perdita dei concetti di rispetto e vergogna.
Nella seconda parte del libro, l’Autrice fa un excursus storico sulla scuola. Secondo i risultati INVALSI, infatti, da un’analisi effettuata sui temi di maturità (non delle elementari o delle medie) del 2009 è emerso che il 70% dei ragazzi non sa scrivere; nel dettaglio: l’85% fa errori di grammatica, il 70% è insufficiente per competenza lessicale e semantica e quasi il 60% non ha capacità ideative. Come mai la situazione è così allarmante? La Mastrocola individua nel Sessantotto, in don Milani, in Rodari e nella loro pedagogia democratica e massificatrice la vera causa della situazione odierna. Da quarant’anni a questa parte la scuola è stata distrutta, mattone dopo mattone: il nozionismo e la valorizzazione del merito sono stati visti come due concetti estremamente pericolosi e, quindi, da eliminare; allo stesso modo, in nome del relativismo e della democrazia, sono stati fatti fuori anche i concetti di autorevolezza, di competenza e di rispetto (delle regole e dei professori)… e la saga degli errori (o forse sarebbe meglio dire, “orrori”) potrebbe continuare.
Infine, nell’ultima ripartizione del volume, la Mastrocola porta avanti, argomentandola, la tesi secondo cui la scuola non può e non deve essere per tutti. Naturalmente è necessario che ognuno venga istruito per un numero minimo di anni, ma da qui a ritenere che tutti debbano fare il liceo e l’università…
Ognuno di noi ha la propria vocazione: chi di parafrasare Dante, chi di aggiustare una serratura; e solo seguendo le proprie inclinazioni si giunge alla felicità, lo affermava già Aristotele. La soddisfazione di sé è il carburante necessario per affrontare il lungo viaggio della vita!
Al contrario, costringere i ragazzi a studiare o a fare un lavoro per cui non sono portati equivale a condannarli all’infelicità e all’apatia. E non è certo questo quello che la società, la scuola e le famiglie vogliono per i propri giovani.
 
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