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L’Italia esiste da molti secoli, non come entità statuale, ma come popolo, come nazione. Con tante differenze, ma con caratteristiche comuni. Dante è esempio evidente di questa italianità: amante del suo campanile, Firenze, viaggiatore e ospite di vari signori, da Verona a Rimini, fautore dell’unità imperiale e padre della nostra lingua volgare.
Dante definisce così l’Italia: “il paese dove ‘l sì suona”; il paese, potremmo dire, noto anche come il “Belpaese” per eccellenza. La storia d’Italia è storia di fede, di arte, di cultura, persino di cucina (con una varietà di piatti unica al mondo).
La Magna Grecia e Archimede; Roma repubblicana ed imperiale; Roma patria dei papi e del cattolicesimo mondiale. E’ in Italia, soprattutto guardando a Roma, che i barbari germanici apprendono la civiltà. Italiano era Benedetto, patrono dell’Europa, che con i suoi monaci salvò la nostra civiltà dallo sfacelo delle invasioni barbariche. L’Italia è stata la culla della medicina e dell’istituzione ospedaliera; della cultura (qui è nata la prima università del mondo, a Bologna) e del diritto. Italiano fu il più grande filosofo del medioevo, Tommaso; italiano il più grande riformatore religioso, Francesco: “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”.
Qui è fiorita la scienza, dal momento che la gran parte dei padri del pensiero medico e scientifico sono stati italiani, oppure stranieri, che però studiarono in Italia (Copernico, Vesalio, Harvey…). Anche gli studi anatomici e poi quelli fisiologici sono nati qui, nel Medioevo e nel Cinquecento. Per secoli l’italiano, come ricorda A.J. Gurevic, fu la lingua internazionale dei commerci, come lo fu, a lungo, della cultura: ancora nel Settecento, alla corte di Vienna i poeti cesarei si chiamavano Apostolo Zeno e Metastasio. In Italia nacquero la commedia all’improvviso, il melodramma, la gran parte del patrimonio artistico mondiale: Giotto, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Bernini…
Anche nel Seicento e Settecento l’Italia diede moltissimo: nella scienza Marcello Malpighi, Lorenzo Bellini, Gian Alfonso Borelli, Francesco Redi, Giorgio Baglivi, Giovanni Battista Morgagni, don Lazzaro Spallanzani, Luigi Galvani, Alessandro Volta…
Si potrebbe continuare a lungo, ma è chiaro che amare l’Italia è più che doveroso.
Allora, perché siamo un popolo così poco fiero della nostra storia e della nostra cultura? Un popolo così poco patriottico? Ci sono vari motivi.
Anzitutto uno storico: c’era una nazione senza Stato, e si volle fare, con il Risorgimento, uno Stato, ma senza nazione. L’Italia risorgimentale fu infatti costruita dai pochi contro i molti; dalle elite contro i popoli; dai Savoia contro le altre dinastie; dalla borghesia massonica e liberale contro la Chiesa. Dove c’erano grandi varietà e specificità, si volle creare uno Stato centralista, soffocando nel sangue i recalcitranti. Difficile, per molti, a nord e a sud, amare uno stato sorto così.
Ma c’è dell’altro. Il tradizionale disfattismo italiano è legato anche alla calunnia secolare di coloro che identificano, non senza fondamento storico, italiano con cattolico. Sono stati i protestanti e gli anglicani i primi a dannarci come “papisti”, “succubi” dell’ “Anticristo”.
Insieme a costoro tutti quegli italiani che hanno in odio il cuore cristiano della nostra storia. Penso a Niccolò Machiavelli, che nei “Discorsi sulla prima decade” di Tito Livio scriveva: “E perché molti (si badi bene, ndr) sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia (allora senza dubbio le più ricche d’arte e di cultura del mondo, ndr) nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere…due potentissime ragioni”. E continuava sostenendo che la Chiesa e la fede cristiana hanno tenuto gli italiani in uno stato di minorità, rendendoci vili, “sanza religione e cattivi”.
L’argomento di Machiavelli è quello che hanno usato molti padri del Risorgimento, quello di non pochi sedicenti intellettuali odierni, specie a sinistra, per i quali l’Italia è sempre “indietro”, “perché c’è il Vaticano”, cioè i cattolici. Affermava infatti recentemente Adriano Prosperi, dopo aver esaltato l’autore de “Il principe”, che la Chiesa, con le sue devozioni, ha “fatto degli italiani un popolo ignorante e superstizioso” (Il Foglio, 18/5/2010)!
Analogamente Ermanno Rea, entusiasta del PCI e della Resistenza in versione mitologica, nel suo “La fabbrica dell’obbedienza” esprime sommo disprezzo per l’Italia: patria di servi, ruffiani, sudditi privi di coscienza critica… perché cattolica!
In questa visione negativa della storia italiana, si colloca a pieno titolo la tradizione della sinistra atea e comunista, antipatriottica per definizione. Palmiro Togliatti al XVI congresso del PCUS, prima di scegliere ipocritamente Garibaldi come simbolo del Fronte popolare (filo-sovietico), affermava: “E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana... mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo unito a Mosca agli ordini del compagno Stalin…come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volte più del migliore cittadino italiano”. Il Foglio, 17 marzo
Nella foto: il presidente Napolitano col dittatore rumeno Ceaucescu