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La natura, la natura, la natura. Tutti a parlare della tragedia giapponese come terribile manifestazione della natura, la solita cieca e crudele matrigna. Una lettura emotivamente giustificabile, certo, ma c’è dell’altro. Gli effetti dei terremoti, tanto più di quelli così devastanti come quello nipponico, raccontano infatti una storia al contempo più marginale e inquietante: quella della minuscola statura dell’uomo, della precarietà del vivere, del nostro essere «come d'autunno sugli alberi le foglie», per dirla con Ungaretti. E cioè aggrappati alla vita, non dominatori di essa; ospiti temporanei che possono essere sfrattati da un momento all’altro e che, volenti o nolenti, hanno ancora tutto o quasi da capire di questo mondo e delle sue trame.
Paolo Flores d’Arcais ha scritto: «Noi possiamo e dobbiamo affermare tranquillamente che sappiamo tutto […] ormai sappiano tutto rispetto alle “grandi domande” tradizionali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» (Atei o credenti?, Fazi editore, Roma 2007, p.3). E’ davvero così? Credo che i fatti di questi giorni dicano il contrario; che ci sia ancora, oggi più che mai, la necessità di interrogarsi sul nostro povero destino e su quanto siamo ridicoli, quando sediamo sui nostri troni di cartapesta, sulle nostre ambizioni, sulle nostre carriere, sulle nostre certezze. Poi arriva la natura o il destino - chiamatelo come volete - e sono dolori. Credete, conviene tenerle a mente, le immagini di questi giorni. Perché nessuno possa dire, quando vivrà un lutto, una delusione professionale o sentimentale – e prima o poi capiterà a tutti, purtroppo -, che i terremoti non si possono prevedere