Messori, l'Europa, e gli Usa liberatori.
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Caius - 22/03/2007 -
Storia - 1586 visite - 0 commenti
Se per qualcuno mi sono espresso male, lascio la parola ad un personaggio che si esprime meglio, dicendo però le stess ecose: Vittorio Messori, che mi sembra apprezzato, in questo sito, e dal mondo cattolcio in generale.
"Il cosiddetto “american way of life” non è certo il mio ideale. «Ci hanno salvati due volte», dicono spesso i fanatici dell’Usa-mania, riferendosi alle due guerre mondiali. Ma, a ben guardare, i motivi degli Stati Uniti per intervenire non erano così limpidi, e proprio certi loro errori furono all’origine dell’emergere dei fascismi.
Poiché amo la mia cultura – quella, cioè, di italiano “padano” nonché di cattolico – rispetto ogni altra cultura e tradizione. In effetti, come dimenticano spesso certi “dialoganti” confusionari, l’amore di sé è condizione indispensabile per l’amore verso gli altri. Solo chi è consapevole della sua identità e non vuole essere offeso in ciò che gli è caro, si guarda dall’offendere ciò che è caro ad altri. Dunque, alla pari di ogni altro Paese, rispetto anche gli Stati Uniti e quella loro cultura, della cui bontà sono così convinti da farne un’ideologia da esportazione mondiale, dandole un nome: american way of life. Rispetto, dunque. Ma, a differenza di tanti, oggi, non faccio del Nord America il mio ideale, non ho alcuna intenzione di abbandonare le mie tradizioni per adottare le loro. Il mio “istinto” cattolico si sente estraneo a un Paese che è figlio prima del protestantesimo radicale, poi della massoneria (tutti i Padri della Patria erano massoni e vollero riempire dei loro simboli non soltanto il dollaro ma ogni altro emblema, a cominciare dalle bandiere dei singoli Stati), infine di un ebraismo, soprattutto ashkenazita, che è sceso in profondo attraverso la cultura, i mass media, lo spettacolo. Mi ha sempre sorpreso il totale oblio che ha avvolto la lettera apostolica Testem benevolentiam del 1899, con la quale Leone XIII condannava quello che fu chiamato “americanismo” e denunciava una deriva che il cristianesimo stava prendendo (ma, malgrado gli avvertimenti, sempre più avrebbe preso) nel Nuovo Continente. Naturalmente, lascio che chi vuole sia affascinato dagli States sino a vestire, cantare, parlare come loro; e facciano pure se rischiano così la figura dei provinciali se non dei barbari nell’impero romano, ansiosi di adeguarsi a usi, costumi, lingua dei dominatori. Amando però la verità – e conoscendo un poco la storia – non accetto una sorta di ricatto cui si è spesso sottoposti quando si è sospettati, quasi fosse una colpa, di non volere confondere il doveroso rispetto anche per gli americani con l’ammirazione o magari l’entusiasmo: «Ingrati! Dovreste essere riconoscenti a quel grande Paese che, nel secolo scorso, ha salvato l’Europa almeno due volte». Si allude, naturalmente, alle due guerre mondiali, nelle quali fu decisivo l’intervento statunitense. Varrà allora la pena di ricordare, almeno a grandi linee, come siano andate davvero le cose: cercare di ricostruire la verità storica e dare a ciascuno il suo non è forse tra i doveri del cristiano? Va detto, innanzitutto, che alla fine del 1916 gli americani rielessero come loro presidente il figlio di un pastore presbiteriano, secondo molti massone (come tutti o quasi i suoi predecessori), Thomas Woodrow Wilson. Lo slogan vincente della sua campagna elettorale era stato: «Vi ho tenuti fuori dalla guerra! ». In effetti, Wilson aveva subito proclamato la neutralità davanti all’incendio scoppiato in Europa nel 1914. Una decisione che piacque agli americani che, perciò, premiarono con un nuovo, trionfale mandato l’uomo che non voleva trascinarli nelle beghe sanguinose di un’Europa poco amata da un popolo la cui maggioranza aveva dovuto fuggire dal Vecchio Continente a causa della miseria o della persecuzione, religiosa e politica. I cattolici erano tra i più contrari alla guerra, soprattutto se a fianco di inglesi e francesi: non solo per amore religioso di pace, ma anche perché il nerbo del cattolicesimo americano era costituito o da irlandesi che non dimenticavano le persecuzioni britanniche o da austriaci, tedeschi o altre etnie dell’Europa centrale che non intendevano combattere contro le loro patrie d’origine. Quanto ai cattolici di provenienza italiana, erano stati ben contenti di affiancare la Penisola nella neutralità ed erano d’accordo con il Papa che definiva quanto stava avvenendo una “inutile strage”. Se gli irlandesi detestavano l’Inghilterra persecutrice, nessun credente amava la Francia, con il suo governo tra i più anticlericali del mondo che da poco aveva sciolto le congregazioni religiose e cacciato frati e suore. Invece, pochi mesi dopo la rielezione, il 6 aprile del 1917, Wilson rinnegava le promesse elettorali e dichiarava guerra alla Germania scegliendo per giunta (per alcuni non fu un caso) la ricorrenza del venerdì santo per la dichiarazione ufficiale. Naturalmente – come avviene dappertutto,ma in particolare negli Stati Uniti – pure quella volta la decisione di scendere in guerra fu ammantata di nobili ideali, a cominciare dal fatto che l’America «madre e custode della democrazia nel mondo» intendeva difendere con le armi quel grande valore minacciato. Motivazione stupefacente: accanto alla Gran Bretagna e alla Francia, combatteva la Russia zarista, cioè uno dei sistemi meno democratici e più totalitari, sino alla barbarie, del mondo intero. Inoltre, sia la Germania che l’Austria-Ungheria erano Paesi parlamentari, con libere elezioni e, tra l’altro, potenti partiti d’opposizione socialisti. Il sistema sociale tedesco a favore degli operai e dei lavoratori era, sin dai tempi di Bismarck, tra i più avanzati. Quanto all’Impero austro-ungarico, la prova della tutela culturale dei molti popoli che ne facevano parte e della loro fedeltà al comune sovrano fu testimoniata dalla compattezza e dal valore con cui quelle sue armate multietniche combatterono sino alla fine. E, come si sa, ci sono ancora molti (anche nelle provincie italiane che ne facevano parte) che sono nostalgici dell’Impero perduto. La propaganda di Wilson insistette pure, per giustificare l’intervento, nel riesumare il siluramento – avvenuto peraltro due anni prima e legittimo secondo il diritto di guerra – del transatlantico inglese Lusitania, sul quale erano morti un centinaio di americani. Non si esitò neppure a sfruttare una delle menzogne più odiose divulgate dagli alleati: l’accusa, cioè, ai tedeschi di mozzare le mani ai bambini belgi. La realtà, era, ovviamente diversa: tra i motivi dell’intervento c’era il timore che la sconfitta dell’Intesa impedisse il rimborso dei grandi prestiti fatti a Inghilterra, Francia, Italia, Russia. Accanto alla pressione dei finanzieri, c’era quella degli industriali nonché degli imprenditori agricoli: i commerci con i tedeschi erano impediti dal blocco della flotta inglese nel Mare del Nord, quelli con gli austro-ungarici dalle flotte francese e italiana nel Mediterraneo. Dunque, le gigantesche esportazioni dell’America ancora neutrale verso l’Europa erano dirette esclusivamente agli Alleati. In caso di loro disfatta (che appariva sempre più probabile) sarebbe ovviamente cessato quel lucrosissimo mercato e nessuno, per giunta, avrebbe pagato i debiti. La stampa americana che, unanime, aveva sostenuto Wilson nel suo neutralismo, cambiò all’improvviso atteggiamento e difese ora, senza esitazioni, il suo interventismo. Una svolta sorprendente che, stando a molti storici, trova spiegazione nella celebre “dichiarazione Balfour”. Questo Lord era il ministro degli esteri della Gran Bretagna: recatosi negli Stati Uniti per cercare di ottenerne l’ingresso nella guerra, dichiarò pubblicamente che, dopo la vittoria, il suo Paese, ereditando la Palestina dall’impero turco, vi avrebbe favorito la creazione di un “focolare nazionale ebraico”. In cambio di quella “dichiarazione” senza la quale, 30 anni dopo, non sarebbe nato lo Stato d’Israele, i trust ebraici americani, che possedevano i media più influenti (i giornali, ma anche le già potenti case di produzione cinematografica) decisero di appoggiare l’intervento. Non mancò neppure la pressione della massoneria, che contava negli Stati Uniti milioni di aderenti. Malgrado le logge inglesi e americane siano contrassegnate meno che le latine dall’anticlericalismo, i “fratelli” anglosassoni vollero manifestare solidarietà ai massoni europei che desideravano la distruzione dell’impero austro-ungarico, considerato l’ultimo erede dell’aborrito Sacro Romano Impero e bastione della Tradizione soprattutto cattolica. Qualcuno ha osservato che la storia sembra talvolta avere a che fare con le leggi della fisica: l’Europa era esplosa sotto la pressione di forze interne che dovevano ora trovare un nuovo equilibrio. Ma a questo non si poteva giungere, pur attraverso tanta violenza, se sul “sistema” irrompeva all’improvviso un elemento estraneo come la potenza americana. Questa, facendo pendere il piatto della bilancia da una parte, squilibrava l’Europa, impedendo che i rapporti di forza locali riassestassero durevolmente il continente. Mala pesante mano allungata attraverso l’Atlantico agì anche, forse soprattutto, alla fine della guerra. Sebbene cercassero di trattenerlo, Wilson, caldo di spirito umanitario, volle andare in persona alla conferenza di pace di Versailles: e, qui, con quei trattati sciagurati che vi furono imposti, contribuì in modo forse decisivo a porre le basi per lo scoppio, vent’anni dopo, della seconda guerra mondiale. A Versailles, come si sa, il presidente americano portò i suoi celebri “quattordici punti per una pace giusta”: l’aspetto era edificante e nobile ma in realtà quei “punti” erano un condensato di utopia, di moralismo puritano, di ignoranza della vera realtà europea, di “democraticismo” ridotto a ideologia. In nome, ad esempio, di un astratto “principio di nazionalità” (oltre che dell’odio massonico cui accennammo) si procedette alla distruzione totale dell’impero austro-ungarico, inventando persino Paesi come la Jugoslavia o la Cecoslovacchia che non a caso si sciolsero appena ne ebbero la possibilità. La nascita e l’affermazione del fascismo italiano, che avrebbe fatto scuola nel mondo (senza di esso, lo riconobbe sempre Hitler, non ci sarebbe stato il nazionalsocialismo) furono stimolate da quella che fu chiamata “la vittoria mutilata”. Wilson, infatti, in nome dei suoi schemi di “principio di nazionalità” e di “autodeterminazione”, oltre che di ignoranza della storia e della situazione concreta, favorì le richieste in Istria e Dalmazia, per secoli terre veneziane, di croati e sloveni che pure avevano combattuto sino alla fine con gli austriaci. Come si sa, davanti alla intransigenza ideologica americana, la delegazione italiana abbandonò polemicamente Versailles. D’Annunzio, con un colpo di mano, occupò Fiume, dove inventò tutto l’armamentario che sarebbe stato adottato dal fascismo nascente. Sta di fatto che fu il trattato di Versailles – misto di spirito francese di vendetta e di dilettantismo britannico, ma anche di utopismo e moralismo americani – che permise a Mussolini di ascendere al potere. Ma fu lo stesso trattato, così pesantemente condizionato dagli Stati Uniti, che – con la sua carica di ingiustizia brutale e insieme di ingenuo irrealismo – pose le condizioni perché Hitler conquistasse il potere “democraticamente”, portato al cancellierato con libere elezioni dalla disperazione tedesca. Se questi, a grandi linee, sono i fatti, c’è da chiedersi se – tra 1917 e 1919 – l’America abbia davvero “salvato” l’Europa o se non ne abbia aggravato i problemi, contribuendo per giunta a porre le basi per la tragedia successiva. Quando poi questa giunse, la scelta degli Stati Uniti fu netta: stroncare il totalitarismo nazista ma, al contempo, favorire il totalitarismo marxista. Mai l’Urss avrebbe fermato i tedeschi davanti a Mosca e Leningrado senza l’enorme fiume di materiali, munizioni, viveri, denaro che le giungevano dagli States. E mai i russi avrebbero potuto occupare tutta l’Europa orientale e parte di quella centrale se gli americani non avessero respinto l’invito dei più realisti inglesi: dopo avere sgominato i nazisti, fermare i comunisti almeno nei loro confini, se necessario con le armi. O, più semplicemente, con un semplice avvertimento: solo gli Usa, allora, avevano una potenza nucleare. Mai, poi, gli uomini con la stella rossa avrebbero potuto assurgere alla dignità e al prestigio di giudici della barbarie altrui se gli americani non li avessero voluti in quella Norimberga dove si vide uno spettacolo tragicamente grottesco: Stalin che, virtuosamente, giudicava Hitler. È verità storica che la potenza militare americana salvaguardò l’Europa dall’aggressione sovietica. Ma è altrettanto vero che il “socialismo reale” non avrebbe raggiunto quella potenza e quello status senza le scelte americane tra il 1941 e il 1948. Insomma, che ciascuno faccia ciò che gli pare: quanto a me, mi guarderò sempre dall’insolentire qualunque popolo, dunque neppure quello americano. Ma neanche accetterò di considerarlo “salvatore” del continente di cui la mia terra è parte".
Vittorio Messori, Jesus, 2004
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