Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Diciamola tutta e subito: il nostro caro Benigni, comico un tempo irriverente con gli uomini di potere, ha detto molte bischerate. Anzi, memorabili bischerate. E a lui che è un toscanaccio questa espressione dovrebbe arrivare diretta al cuore. Ci riferiamo alla seconda parte del suo intervento all’ultimo festival di Sanremo: 250 mila euro per una orazione civile sul Risorgimento che qualcuno ha definito da scuola elementare di cento anni fa. Non si ha la pretesa di smascherarle tutte, ma su quelle più eclatanti vale la pena di soffermarsi, se non altro per quella sete di Verità che caratterizza l’uomo onesto e umile di ogni latitudine.
Parlando di Cavour, Mazzini e Garibaldi il Nostro ha asserito che siano usciti dalla vita politica più poveri di quando erano entrati.
In realtà gli storici, Viglione e Messori, per citarne due, ci dicono che una volta consegnato il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II con il famoso incontro di Teano, l’eroe dei due mondi si ritirò a Caprera, isola donatagli da un gruppo di ammiratori e dove possedeva una azienda agricola che contava una trentina di dipendenti, oltre 500 capi di bestiame, un asino che aveva voluto chiamare come il Papa suo contemporaneo e un panfilo regalatogli da un fan inglese. Tutto questo dovrebbe essere, secondo Benigni, il segno dell’indigenza di un cinquantatreenne figlio di un capitano della marina mercantile? Certo, gli ultimi anni della sua avventurosa vita furono amareggiati da difficoltà economiche che, però, furono causate dalla disonestà di molti suoi collaboratori di cui si era fidato e in particolare dei suoi due figli, Ricciotti e Menotti, che avevano tentato di speculare sul boom edilizio di Roma, neo-capitale. E quindi, per aiutarlo e forse tenerlo buono, si mosse il Governo italiano con l’offerta di una rendita annua di cinquantamila lire: pari alla rendita di due milioni di lire-oro, il Gran Maestro della massoneria italiana (da quel momento chiamato beffardamente “l’Eroe dei due Milioni” dalla rivista Civiltà Cattolica) incassò quella enorme somma dal 1876 al 1882, anno della sua morte.
Forse allora il Comico alludeva a Cavour, quando ha parlato di povertà? In realtà per il rampollo della famiglia aristocratica piemontese si può delineare il primo caso di conflitto d’interesse della storia della nostra Repubblica. Un’occasione ghiotta per una trascinante e attuale satira: perché non ne ha approfittato l’irriverente Benigni?
Il Conte era in realtà ricchissimo, come dice la Pellicciari. Proprietario, tra l’altro, di 900 ettari appartenuti un tempo all’abbazia vercellese di Lucedio, ettari da suo padre Michele acquistati per pochi soldi ai tempi dell’occupazione napoleonica, durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, era anche il maggior azionista del più grande ente privato granario della penisola, la “Società Anonima Molini Anglo-Americani” di Collegno. Ebbene, un anno prima della guerra in Crimea, mentre infuria la carestia in tutta Europa, anziché vietare l’esportazione del grano e nutrire così la propria popolazione come avevano deciso gli altri stati europei, il governo liberista di Cavour la permette, consentendo così ai produttori piemontesi, e fra questi lo stesso Benso, di rincarare il prezzo della farina e realizzare quindi forti profitti. Con l’esecutivo di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, gli speculatori, gridava dai banchi della sinistra il deputato Brofferio. Sarà davvero morto in odore di povertà l’uomo che per tutta la sua vita politica aveva confiscato, a beneficio delle malandate casse dello Stato, i beni di quasi tutti gli ordini religiosi cattolici piemontesi e poi italiani?
Ma Benigni non si è fermato a queste corbellerie. Durante tutto l’intervento nazional-popolare (che ho ascoltato via radio non avendo, per scelta personale, il televisore in casa) il premio Oscar ha ripetuto più volte che l’Italia pre-unitaria era un corpo fatto a pezzi, dilaniato, posseduto, stuprato, saccheggiato, oppresso e sventrato da stranieri. Tale è stata la mia incredulità per la violenza di tali affermazione che il giorno seguente la trasmissione ho voluto verificare se avevo ben compreso il discorso guardando la registrazione postata su un noto sito di video.
Partiamo dal concetto di straniero. Dei sette stati in cui l’Italia era divisa solo uno era ancora soggetto allo straniero. Sicuramente non era soggetto allo “straniero” lo Stato Pontificio al cui comando, a partire dal 1523, anno della morte di Adriano VI di Utrecht, si erano succeduti solo Papi italianissimi: Pio IX, vale la pena ricordarlo, si chiamava Giovanni Maria Mastai Ferretti, era nato a Senigallia e, dato importante, era anche lui fautore dell’unificazione dell’Italia, ma non a scapito dei legittimi sovrani e della perdita delle peculiarità della nostra millenaria civiltà e identità!
Sicuramente non era soggetto allo “straniero” il Regno delle Due Sicilie (libero e indipendente fin dal 1734, seppur con un’altra denominazione) il cui ultimo re, Francesco II di Borbone, amava ripetere ai suoi cittadini: “io sono napoletano. I vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni”. Nato e vissuto, finché Garibaldi glielo permise, a Napoli, sposò la sorella dell’imperatrice Sissi e morì ad Arco di Trento durante uno di quei suoi numerosi viaggi nelle tenute della famiglia della moglie a cui fu costretto dopo che i Savoia gli sequestrarono tutti i beni immobili. Per ironia della sorte, insomma, un re di origine e di lingua francese, tale era l’idioma della corte sabauda, aveva inviato un nizzardo a “liberare”, con il sostegno materiale dell’Inghilterra di Palmerston, una terra governata da un re più italiano del primo.
A ben guardare, è proprio contro la casata dei Borbone che si scaglia la vis risorgimentale; allora come ora, a riascoltare le parole del comico toscano. In un passaggio del suo intervento Benigni infatti allude all’oppressione mostruosa dei Borbone sulla popolazione meridionale. Terrificanti, vengono definiti.
Eppure gli storici, ci descrivono una terra con meno poveri, in proporzione, che a Parigi e Londra, con la pressione fiscale più lieve d’Europa e con un debito pubblico di 500 milioni di lire per una popolazione di 9 milioni contro un Piemonte che aveva più di mille milioni di debito per 4 milioni di abitanti!
Eppure il popolo del Sud, una volta liberato dall’oppressore, non festeggia! Evidentemente non doveva sentirsi così oppresso se è vero, come è vero, che nei giorni immediatamente successivi al 17 marzo si formarono bande di briganti che, composte in prevalenza da poveri contadini, da ufficiali e soldati dell’ex esercito borbonico, ma anche da esponenti della nobiltà e del clero, espressero con le armi il loro malcontento nei confronti della dominazione sabauda. Un brigantaggio che, con le sue 350 bande, per assonanza, ci riporta alla memoria le Insorgenze anti-napoleoniche dei sanfedisti.
Di fatto metà del nuovo Stato era contrario all’unificazione. Il governo, per reprimere la guerriglia, dovette prima inviare un esercito composto da 120.000 soldati e poi proclamare lo stato d’assedio mettendo sotto legge marziale tutto l’ex regno borbonico: libertà personale e tutela della proprietà privata furono completamente bandite. Tali e tante furono le atrocità commesse dai “piemontesi” che persino Napoleone III ebbe a scrivere: “[…] i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana. […] I Borboni non hanno mai fatto cose simili.” Lo scontro assunse così le dimensioni di una guerra civile che si protrasse fino al 1865, con strascichi fino al 1870: i dati parlano di 60.000 mila caduti. Conseguenza di tutto ciò, fu la rovina dell’economia meridionale e il prospettarsi di un fenomeno nuovo, sconosciuto ai tempi dei Borbone: l’emigrazione di massa di milioni di italiani del sud.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: il Risorgimento è stato fatto dalle classi colte oppure dal popolo, come ha urlato il Roberto nazionale? Siamo probabilmente in presenza di una delle 250 mila bischerate pronunciate nell’intervento sanremese, una per ogni euro ricevuto come compenso per la serata.
In effetti, sempre i soliti storici e non i comici, ci avvertono che la partecipazione popolare al Risorgimento, ad esclusione delle rivolte del 1848, fu limitata. Se è vero che gli ideali erano diffusi presso buona parte della borghesia, della nobiltà e tra gli studenti, è altrettanto vero che la maggior parte della popolazione, costituita dagli abitanti delle campagne, era e rimase ostile al processo di unificazione sia in quanto, di sentimenti cattolici, non accettavano un processo di unificazione attuato deliberatamente in contrasto col Papato, sia in quanto devoti sudditi delle antiche legittime dinastie. Di tale devozione e di tale cattolicità del ceto popolare ne è sicura testimonianza la rivolta popolare antiunitaria del meridione sopra descritta per sommi capi.
Forse allora nell’intervento del comico si alludeva alla vittoria schiacciante dei plebisciti indetti tra marzo e novembre del 1860 per conferire legalità al nuovo regno di Vittorio Emanuele II? In effetti il 98% dei votanti si esprimerà a favore del re-galantuomo (così definito nonostante avesse avuto, oltre alla moglie, numerosissime amanti tra le quali un’attrice di teatro e la quattordicenne Rosina da cui ebbe due figli!): una valanga di voti che conferma l’adesione in massa del popolo agli ideali del Risorgimento? Certo il dato ufficiale è impressionante: chiamati ad esprimersi a suffragio universale maschile, poco meno di tre milioni di persone si recarono alle urne, nonostante l’analfabetismo diffuso e nonostante la prassi del voto fosse pressoché una novità. Il dato dell’affluenza è ancora più impressionante se lo si confronta con quello delle prime elezioni politiche del 1861:circa 240 mila votanti su poco più di 400 mila cittadini aventi diritto, questa volta però, su base censitaria. Vale a dire i proprietari terrieri, industriali, ricchi commercianti, professionisti, aristocratici e militari di alto grado. Era forse questo il ceto popolare di cui parlava Benigni?
Il motivo, in realtà, della massiccia partecipazione “popolare” ai plebisciti ce lo spiega la storica Pellicciari attraverso la testimonianza dell’allora prefetto di polizia Filippo Curletti, sotto la cui direzione diretta si svolsero le votazioni. Presi i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori e preparate le schede “un picciol numero di elettori – racconta il prefetto – si presentarono a prendervi parte: ma al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti”. L’operazione venne condotta così senza scrupolo che lo spoglio, aggiunge il Curletti, diede un numero maggiore di votanti che di elettori iscritti. Poche parole, queste, che riescono a mettere in crisi il concetto di democrazia: c’è il potere, quello più bieco, ma manca il popolo! Della volontà del popolo d’altra parte non interessava a nessuno: non essendo il voto segreto (c’erano due urne distinte, una per il SI e l’altra per il NO) la gente umile, i contadini ebbero difficoltà ad esprimere la propria idea. Infatti molti commissari piemontesi, anziché verificare la correttezza delle procedure minacciarono pesantemente chi mostrava intenzione di votare per il NO. E come se tutto ciò non bastasse, votarono anche, pur non essendo residenti, i soldati piemontesi e i garibaldini di presidio! Insomma, minacce e brogli elettorali senza i quali il corso della storia avrebbe potuto prendere un’altra piega.
Ma allora, se non è stato il popolo a “fare” il Risorgimento chi è stato? Per trovare una risposta potremmo dare la parola a Gramsci, fondatore di quel partito comunista tanto caro al nostro comico. Il politico affermava che il Risorgimento non fu “un movimento nazionale dal basso” perché esso fu ideato e gestito da un’elite di borghesi e ricchi liberal-massoni che agì contro gli interessi del popolo italiano. Parole come macigni, queste di Gramsci. D’altra parte a reclamare la paternità dell’epopea risorgimentale è la stessa Massoneria ufficiale che, per fare un solo esempio fra le molte testimonianze, nel 1988, attraverso le parole del Gran Maestro Armando Corona, arriva a dire che “La liberazione d’Italia – opera eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dall’iniziativa delle Comunioni massoniche d’oltralpe”. Insomma, ispiratrice e animatrice. Serve altro, caro Benigni?
E così siamo giunti all’ultimo punto della nostra parziale disanima. E l’ultima bischerata del Nostro è dello stesso calibro degli strafalcioni che gli studenti, poco preparati e presuntuosi, commettono durante le interrogazioni scolastiche: i colori della bandiera italiana – ha detto Benigni - sono stati scelti da Mazzini. Pubblico sanremese in deliquio e applausi scroscianti in platea. Eppure al nostro somarello, per evitare uno scivolone così ridicolo, sarebbe bastato almeno leggere qualche pubblicazione ufficiale, come quella della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 2005, incentrata proprio sulla storia del Tricolore. Oppure l’articolo pubblicato qualche giorno prima da Antonio Socci che, sebbene sia un giornalista, è certamente più titolato del comico o dei suoi inattendibili collaboratori.
Il tricolore fu concepito da due studenti patrioti di Bologna, Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, che nel 1794 unirono i colori delle loro rispettive città d’origine, Bologna e Asti, al verde, colore della speranza. Il loro intento era quello di organizzare una rivoluzione per restituire al comune di Bologna l’indipendenza perduta. La sommossa tuttavia fallì e loro, insieme ad altri, furono scoperti e arrestati. Ma la loro bandiera rimase, tanto è vero che fu adottata da Napoleone: “les couleurs nationals qu’ils ont adoptés son le vert, le blanc et le rouge”, disse il Generale nel messaggio con il quale informava il Direttorio, supremo organo della rivoluzione francese, della costituzione di una “Legion Lombarde” nel 1796. Data in cui Mazzini non era ancora nato.