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L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani
Di Massimo Viglione - 18/02/2011 - Attualità - 1333 visite - 0 commenti

Il nuovo vate nazionale, comico che deve fa ridere per forza (chi non ride sulle sue battute è, come si dice oggi, “out”), nuovo intellettuale organico adatto ai nuovi tempi del nulla imperante, ci ha nuovamente esaltato, nel nuovo tempio dello Stato italiano (l’altare della patria in realtà non lo è mai stato), la “Nuova Italia”, quella nata 150 anni or sono.

 E subito, appena il giorno dopo, anche il nostro governo ha ceduto: ha finalmente dichiarato che il 17 marzo sarà festa nazionale (a scapito però del tradizionale 4 novembre, per non scontentare troppo Confindustria). Come chiunque può comprendere, alcune riflessioni, per quanto velocissime, appaiono necessarie. Il nostro popolo ha avuto diversi vati nel corso dei secoli, anzi, dei millenni. Virgilio e Orazio, quando dominavamo il mondo, sebbene la Stato italiano non esistesse, bensì l’Italia era il cuore del più importante impero sovranazionale di tutti i tempi, fucina del diritto e della civiltà occidentale; il Vate per antonomasia, il divin Poeta, il più grande genio umano di tutti tempi, che ci ha lasciato la più eccelsa e irraggiungibile opera di tutti i tempi, che ha segnato per sempre la formazione della nostra lingua, che ci ha ricordato il senso spirituale, morale e anche politico di questa fugace vita in attesa della futura eternità: tutto questo quando l’Italia era divisa in decine e decine di Stati e staterelli, poleis e feudi, ma pienamente unita in quello spirito religioso e civile che Dante ha colto come nessun altro uomo ha mai saputo fare con la propria epoca; Torquato Tasso, molto più che l’Ariosto, seppe incarnare il senso di una nuova epoca che poneva Dio e la Chiesa Cattolica e la civiltà ad essa connessa nel centro del cuore degli italiani, producendo alcuni fra i più grandi artisti di tutti i tempi; eppure l’Italia era divisa in Stati in parte soggetti a monarchie straniere; quindi Foscolo, illuso e piagnone servitore di un italiano sì geniale ma ipocrita e rinnegato che con i suoi eserciti francesi aveva promesso libertà e che portò morte, latrocinio, oppressione, e offesa all’identità italiana; e dopo di lui Leopardi, geniale cantore di una visione della vita estranea agli italiani, e Manzoni, operatore di una conciliazione ardita fra il sentimento romantico rivoluzionario e il secolare ordine cristiano cardine dell’identità italiana: eppure l’Italia era ancora divisa in 7 Stati, dei quali però solo uno era soggetto ormai allo straniero; infine i vati dell’Italia postunitaria, Carducci esaltatore di Satana, Pascoli speranzoso nel lavacro socialista e D’Annunzio, fautore del “nuovo italiano”, dimentico del bene e del male.

Poi i vati sono finiti, con la morte della cultura italiana, o meglio, della Cultura, schiacciata dalla guerra civile, dall’odio partigiano, dall’affarismo della rinascita, dal compromesso politico e culturale con il sole dell’avvenire, che ci ha portato le foibe e il Sessantotto, il terrorismo e l’odio sociale, lo statalismo e il radicalismo chic dispregiatore senza limiti di tutto ciò che per millenni è stato costitutivo della grandezza vera e irraggiungibile della civiltà italiana. Ma l’Italia ora è unita… Adesso, finalmente, abbiamo di nuovo un vate, dopo quasi un secolo. Roberto Benigni. E un nuovo tempio nazionale: il teatro Ariston di Sanremo, con fiori, musica e colori, e con tanto di vallette, cantanti e comici. E un pubblico sempre plaudente. E un conduttore cantante che voleva festeggiare l’unità cantando “Bella ciao”…

Da Virgilio a Benigni, passando per Dante. Il meraviglioso itinerario della storia italiana. Ma l’Italia è ora unificata da 150 anni. E gli italiani sono uniti? Quando ieri sera Benigni ha più volte (in maniera spiritosa, s’intende) ironizzato su Berlusconi e le minorenni, quanti milioni di italiani a casa si sono nei loro cuori sentiti uniti? Quanti milioni di italiani hanno magari pensato a Vittorio Emanuele II, esaltato dal post-comunista Benigni come il “Re Galantuomo”, che una sera sì e l’altra pure si faceva portare dai suoi servitori nella sua stanza da letto femmine prelevate dai bordelli di Torino? (per non dire dei suoi amori con tredicenni e giù di lì… come lo chiameremmo oggi un uomo adulto che va con una tredicenne? “Galantuomo” o in altro modo?).

Quando Benigni ha detto che i Borbone opprimevano in maniera mostruosa i meridionali mentre grazie a Dio oggi il Meridione è “libero”, quanti meridionali si sono sentiti uniti? Quando Benigni ha detto che Garibaldi e Cavour si sono sacrificati morendo poveri per l’Italia, quanti italiani hanno visto in lui un vate? Oppure quanti hanno visto solo un patetico barzellettaio? Se il conduttore della trasmissione-culto della “Nuova Italia” avesse veramente cantato “Bella ciao”, quanti italiani si sarebbero sentiti uniti? E, a questo proposito, mi pongo una domanda.

Anzi, due: 1) come mai in questi 150 anni abbiamo fatto festa nazionale il 4 novembre, il 28 ottobre (sotto il fascismo), il 25 aprile, il 2 giugno, e mai il 17 marzo, forse l’unica festa sensata in sé, visto che è la data di costituzione dell’unità nazionale? Come mai abbiamo sempre festeggiato di tutto e di più ma mai l’unificazione?

2) Per quale ragione, per immettere il 17 marzo (una tantum, naturalmente) in questo anno abbiamo tolto la festa del 4 novembre? Tale festa divide pochissimo gli italiani, sia perché la maggior parte di loro, specie i più giovani, neanche sa di cosa si tratta, sia perché rimane l’unica vittoria militare di grande rilievo dell’Italia unificata (con aiuto straniero, s’intende); pertanto, sono pochissimi coloro che nel loro cuore la sentono come una festa che divide e ferisce (fra questi pochissimi, chi scrive).

Sarebbe stato molto più sensato far saltare il 25 aprile, festa da tutti conosciuta, e, apertamente o nel segreto dei cuori, dalla grande maggioranza degli italiani subita controvoglia se non disprezzata come fomentatrice di odio e violenza: festa che ci ricorda – direttamente o indirettamente – la dittatura, la disfatta militare, la “morte della patria”, la guerra civile, l’odio fra fratelli e amici, le fucilazioni, le retate, le violenze sessuali, le vendette di massa, i campi di sterminio e le foibe, invasori spietati sul suolo patrio, la menzogna di una “guerra di liberazione” che fu solo una guerra al servizio di stranieri invasori, dall’una e dall’altra parte della barricata. Festa della divisione civile per eccellenza, festa che più di ogni altra ricorda quanto siamo divisi, quanto l’Italia unificata sia non mai riuscita a “fare gli italiani”.

Chi scrive queste riflessioni non lo fa in spregio al valore dell’unità nazionale. Lo fa come denuncia della menzogna risorgimentale. Un conto è l’unità nazionale, un conto è l’unità degli italiani.

Proprio l’aver unificato l’Italia nel modo in cui è stata unificata, senza partecipazione popolare, contro la Chiesa e la religione degli italiani, conquistando con bestiale brutalità la metà meridionale della Penisola per poi imbarcare milioni di persone per il nuovo mondo, e altro ancora, è la causa fondamentale, insieme alle menzogne storiche perpetuate in questi 150 anni, fino a ieri sera, del fatto che il popolo italiano rimane il più diviso al suo interno fra tutti i popoli dell’Occidente.

Ecco cosa festeggiamo in questi giorni: il fallimento dell’unità degli italiani, come ogni dì ognuno di noi può facilmente verificare. Andatelo a dire al nuovo vate della nuova Italia: ma penso che sia inutile, ora sarà troppo distratto contando la vergognosa montagna di soldi che gli hanno dato (proprio coloro che ogni giorno accusano il governo di non pensare alle difficoltà quotidiane degli italiani) per dirci che il Meridione gemeva sotto i Borbone mentre oggi è libero e prospero e che Garibaldi e Cavour sono morti poveri. Poveri come lui.

 
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