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Il 2 marzo 1848 la I guerra d’Indipendenza non è ancora scoppiata: però manca poco a quella sconfitta, causata, come ricordava Antonio Gramsci, dall’aver concepito l’unità “come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso …”.
A questa data il papa Pio IX è sostenitore di un’unità confederale, incline a collaborare con gli altri stati italiani, maldisposto verso la presenza austriaca in Italia. Nel Regno di Sardegna Carlo Alberto è in procinto di promulgare lo Statuto Albertino, in cui si dichiara la religione cattolica come “religione di Stato” e si proclamano solennemente le libertà liberali.
Eppure, il 2 marzo Carlo Alberto comanda dispoticamente “l’espulsione dal Regno di tutti i Gesuiti di nazionalità non italiana” e ingiunge “l’incameramento dei loro beni”. E’ solo il primo atto, racconta Angela Pellicciari, nel suo “Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa”, di una guerra duratura. Da allora in poi il Parlamento subalpino sarà impegnato in una lotta spietata alla Chiesa: una lotta ideologica, condotta con le armi della calunnia, e con astuto spirito machiavellico.
Espropriare i beni della Chiesa, trasformare scuole e ospedali in caserme, uffici e ospedali militari, sarà infatti il modo con cui anche Cavour finanzierà le folli spese del piccolo stato sabaudo, in Crimea e in centro e sud Italia, per raggiungere i suoi obiettivi. A partire dal 1860, alla politica di rapina ai danni della Chiesa, estesa a tutto il territorio nazionale, si aggiungerà, per ripianare i debiti, una feroce ed inaudita tassazione sulla plebi meridionali. I fatti del 1848 hanno un precedente importante: una lunga campagna di odio contro i Gesuiti condotta dagli ambienti settari e dall’abate Vincenzo Gioberti, autore di violentissimi scritti contro quell’ordine influente.
Sotto l’accusa generica di “gesuitanti” o “gesuitesse”, nella Torino “liberale”, cadono un po’ tutti, anche personaggi come san Giovanni Bosco e la marchesa di Barolo. Se le vicende del primo sono famose, meno conosciute ma assai emblematiche quelle della seconda, raccontate da Cristina Siccardi in una bella biografia: “Giulia dei poveri e dei re”.
Chi è la marchesa di Barolo? Giulia Colbert de Maulèvrier, ricca aristocratica di Vandea, lontana parente del celebre ministro di Luigi XVI, dopo essere stata “amica di principi e di re, ammirata giovanissima ai balli di Napoleone”, conosce e sposa il ricchissimo Carlo Tancredi dei marchesi Faletti di Barolo.
Di famiglia cattolica, controrivoluzionaria, parenti ghigliottinati al tempo della rivoluzione, Giulia è donna estremamente colta, intelligente e devota. Con lei il palazzo dei Barolo, nel centro di Torino, si apre ogni giorno, a pranzo, per ospitare i poveri. La sera lo stesso palazzo diviene luogo d’incontro per i grandi del regno. Lo frequentano il giovane Cavour, con cui Giulia ha un rapporto speciale, ma dissensi in tema di politica, Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio, il conte Solaro della Margherita, de Maistre, ambasciatori, letterati…
Nelle sue giornate Giulia, degna contemporanea di don Bosco, a cui non lesina favori e denari, si dedica alle carcerate, alle ragazze a rischio o già cadute nella prostituzione, alla cura dei bambini dai 3 ai 12 anni, poveri e disabili; fonda, insieme al marito, scuole, orfanotrofi, l’asilo Barolo, per i figli degli operai, e, nel 1827, la prima Cassa di Risparmio torinese per piccoli risparmiatori. Accanto alle numerose opere di carità, per le quali trova l’appoggio entusiasta della regina Maria Teresa, moglie di Carlo Alberto, Giulia si dedica alla letteratura, studia le legislazioni sulle carceri degli altri paesi, finanzia la costruzione di giardini e fontane…
Ma nel 1848 anche lei, pur così stimata in ambienti tanto diversi, viene travolta dalla propaganda anticristiana: il suo pensiero è conosciuto, arriva a nascondere dei gesuiti per salvarli alla persecuzione, e per questo viene additata da alcuni giornali come “clericale”. La sua casa viene persino presa d’assalto, “nella città dove sono pochi quelli che non le devono qualcosa”.
A farle forza, in questi frangenti, vi è anche Silvio Pellico, il celebre carbonaro, incarcerato dall’Austria allo Spielberg dopo i moti del 1820, autore di un’opera di straordinario successo come “Le mie prigioni”: un libro che valse all’Austria “più di una battaglia persa”. Il Pellico che affianca e segue Giulia, è un uomo nuovo: ha preso le distanze dalla sua fede deista, dalla “fallacia” dello “spirito volterriano”, rinnega i rituali massonici, condanna le rivoluzioni violente, e, nel disprezzo dei vecchi compagni, preferisce dedicarsi a rinvigorire la fede ritrovata e ad aiutare la marchesa, che considera “un angelo di bontà, spirito e buon umore”, che “non sa darsi riposo, non dorme abbastanza” per star dietro alle sue molteplici opere di carità.
Giulia attraverserà ogni burrasca imperterrita, come faranno gli altri grandi santi sociali piemontesi. Sino alla morte, nel 1864, dieci dopo il Pellico. “Esimia benefattrice dei poveri”, scriveranno i giornali, anche quelli che la avevano abbondantemente infangata. Il Foglio, 17 febbraio 2011 continua