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Quelli che... studiare non serve
Di Rassegna Stampa - 19/02/2011 - Segnalazioni librarie - 1075 visite - 0 commenti
Intervista di R.I. Zanini a Paola Mastrocola

«Theodor Wiesengrund Adorno. Qualcuno, per caso, ancora se lo ricorda? Criticava la condiscendenza per gli uomini come sono, vista come falsa virtù... ‘Il borghese - diceva - è tollerante. Il suo amore per la gente così com’è nasce dall’odio per l’uomo come dovrebbe essere’».

È una delle provocazioni contenute nel libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda), che affronta il drammatico problema di una scuola che ha smesso di insegnare. Il problema, spiega abilmente l’autrice, che oltre a essere una nota scrittrice è anche docente di Lettere al liceo, è il frutto di una società essenzialmente edonista, che non intende impegnarsi a far crescere i propri figli.
La frase di Adorno fotografa con inusitata efficacia questo stato di cose e ha il grande pregio di obbligare alla discussione. «Lui sosteneva che il consumismo di massa ci avrebbe ridotto a restare quello che eravamo, cioè massa amorfa. Il sospetto è che abbia avuto ragione. E la scuola ne è una diretta conseguenza. Oggi un ragazzo può agevolmente chiedersi se lo studio serva ancora. Il dramma è che noi adulti abbiamo risposto di no. Così i giovani non studiano. Al liceo ho molti studenti che si interessano alle lezioni, bravi ragazzi, che però a casa non aprono libro. E non c’è nessuno che faccia loro comprendere l’importanza dello studio».

Non lo fa la scuola, non lo fa la famiglia, non lo fa la società. Ne consegue, pare di capire, una sorta di grande inganno i cui i nostri ragazzi sono le vere vittime.
«Un inganno dai tanti volti. La scuola fa lavorare in gruppo quando sappiamo benissimo che si tratta di un modo per non studiare. Insegna a lavorare sfruttando il web e questo è veramente il massimo che si potesse fare per fregare i giovani: dire loro che tanto c’è il computer, che si può sempre mettere la parola giusta sul motore di ricerca e poi si scarica, si copia e incolla e il compito del giorno è fatto. Non c’è nemmeno bisogno di leggere quello che si è scaricato».

Sono i professori, persino i libri di testo che chiedono agli studenti di studiare in questo modo con internet.
«E così si avalla la logica che per studiare non serve fatica. Anzi, non serve proprio studiare. Servono solo le nuove abilità: utilizzare i nuovi programmi, navigare in rete, chattare, collegarsi a facebook».

Se si avanzano critiche su questi argomenti c’è sempre il professore che con tono di compatimento ti fa notare che forse sei retrogrado, antiquato, reazionario.
«Ma è una falsità. Siamo noi i più moderni. Noi che usiamo tranquillamente tutte le nuove tecnologie conoscendo Dante e Petrarca, avendo letto Tasso, Leopardi e Montale, sapendo di latino e di sintassi. Insomma, vogliamo o no che i nostri ragazzi abitino anche una sfera mentale, spirituale, delle idee e non siano interamente calati nel più puro materialismo? Vogliamo che la scuola serva ancora a qualcosa? Cosa vogliamo che facciano i nostri figli?».

Bisognerebbe chiederlo alle famiglie, che oltre a non far studiare i figli a casa se la prendono con maestri e professori quando danno troppi compiti o pretendono qualcosa di più dagli studenti.
«È quella che nel libro ho definito l’ inversione delle responsabilità. Se le famiglie remano contro gli insegnanti che vogliono lavorare la scuola non serve più. Meglio che tolga il disturbo, appunto. I genitori sempre schierati dalla parte dei figli sono il fenomeno più devastante del mondo scolastico. Del resto la scuola e il modo di approcciarsi alla scuola sono il riflesso della società».

Viene da chiedersi come sia potuto accadere tutto questo.
«Le rispondo con una provocazione: forse siamo un Paese troppo progredito per credere ancora nella scuola».

Un’affermazione drammatica.
«Drammatica, ma realista. La nostra società, cioè tutti noi, è troppo concentrata sul suo ombelico, è troppo rivolta al piacere. La famiglia media pensa a come impiegare il tempo libero nei divertimenti, nello sport, pensa ad avere due auto, due telefonini, la tv di ultima generazione... in tutto questo la scuola è un disturbo. Ci sono i compiti da fare, c’è da impegnarsi a seguire i figli, a spronarli... Molto più facile affidarli alle badanti tecnologiche, come la tv, internet, le play station. Si sono perduti i valori pedagogici della fatica, dell’umiltà. Studiare è un impegno e le famiglie non vogliono più che i figli studino. Pensano alla scuola come a un contenitore».

Detta così sembra una delle pessime conseguenze del ‘68?
«Questa situazione è certamente figlia anche delle ideologie, delle letture cattive e distorte degli scritti di don Milani, quello che nel libro chiamo il donmilanismo, che ha portato a una scuola appiattita verso il basso. Della lettura di comodo dei libri di Gianni Rodari, che definisco rodarismo e che ha portato all’inganno criminale della scuola creativa, che lascia spazio alla fantasia, ma non insegna la grammatica, la struttura del pensiero e del discorso. Ma per per diventare grandi bisogna prima aver molto letto, molto pensato e molto studiato, poi ci si può aprire alla creatività vera».

Avvenire, 17 febbraio 2011
 
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