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LA TELEONOMIA DEI VIVENTI COME PARADOSSO
Di Umberto Fasol - 17/02/2011 - Scienza - 1607 visite - 0 commenti

Il saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea scritto dal Premio Nobel per la medicina Jacques Monod nel 1970, “Il Caso e la Necessità”, rimane una pietra miliare nel nostro dibattito sulla natura della vita, sulla sua complessità e sulla sua origine.

Particolarmente lucido ed assertivo risulta il filo rosso che unisce tutte le pagine e tutti i capitoli trattati: “il carattere teleonomico degli esseri viventi, per cui nelle loro strutture e prestazioni essi realizzano e perseguono un progetto”. (pag. 30). La grande sfida per la riflessione filosofica sulla natura della vita è dunque costituita dalla teleonomia degli esseri viventi: il libro la affronta, la analizza e la rilancia di continuo, cogliendola da prospettive diverse, prese soprattutto dall’ambito della biologia molecolare.

 L’ interrogativo fondamentale, cui si vuole rispondere è questo: “la teleonomia è reale o è solo apparente?”, ovvero: “è frutto di una scelta o è l’unica possibilità?” Prima di giungere alla risposta procediamo per gradi. Prima di tutto definiamo la teleonomia attraverso un esempio.

 “Se si ammette che l’esistenza e la struttura della macchina fotografica realizzano il progetto di captare immagini, si deve anche necessariamente ammettere che un progetto simile si attua nella comparsa dell’occhio di un vertebrato. … Lenti, diaframma, otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili.”

E’ impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura” (pag. 30).

Con tale affermazione categorica si cancella qualunque dubbio il lettore o il ricercatore potesse avere in proposito: il progetto c’è! Si può e anzi si deve dunque parlare di progetti nelle forme di vita, senza il pudore che tutti gli insegnanti manifestano quando parlano con gli studenti: l’occhio serve per vedere, il cuore serve come pompa per spingere il sangue in tutti i distretti cellulari, le ali sono strutture disegnate per consentire il volo, ecc… Ricordiamo il celebre intervento del card. Schonborn sul New York Times, il 7 luglio del 2005, con un clamoroso “Finding design in Nature”, mirato ad accusare “di ideologia ogni scuola di pensiero scientifico che voglia escludere l’idea di progetto in natura.”

Qual è dunque il problema se Monod prima e Schonborn poi, da prospettive filosofiche opposte, parlano di “disegno” in Natura come un’evidenza, che addirittura non si può smentire in modo sperimentale? Il problema nasce nel momento in cui si vuole indicare la fonte di questi progetti, che non può assolutamente essere metafisica, per la scienza, in virtù del “postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di progetto” (pag. 29).

Detto in modo diverso: il progetto c’è, ma non può essere spiegato con un altro progetto che lo precede. Esso nasce spontaneamente ogni volta che si forma la vita, non per scelta specifica, ma per l’esclusione automatica di tutte le altre possibilità, per opera sia della conformazione iniziale che della selezione naturale. E’ il concetto di gratuità che viene in soccorso di questa interpretazione. La gratuità è l’indipendenza chimica tra la natura molecolare del segnale e la funzione stessa che vuole realizzare. L’esempio più famoso è dato dal codice genetico.

 Non esiste alcuna relazione chimica tra la tripletta di nucleotidi e il suo significato, ovvero l’amminoacido specificato: la parola UUU significa la fenilalanina, ma per pura convenzione, non per complementarietà tridimensionale o per affinità chimica. Un altro esempio si può ricavare dal mondo degli ormoni. L’insulina è l’ormone prodotto dalle cellule beta delle isole del Langherhans del pancreas ed ha come bersaglio il glucosio del sangue: lo spinge all’interno delle membrane cellulari, abbassando così la glicemia.

Bene: la relazione tra la molecola di insulina e il suo significato, ovvero la molecola di glucosio, è assolutamente gratuita: osservando la natura della prima non si può prevedere nulla della sua funzione. Allora, ecco la conclusione di Monod: se i codici della vita sono gratuiti, significa che “tutto è possibile”: quando si formano le strutture vitali la completa libertà di scelta tra le infinite opzioni, essendo queste sciolte da qualsiasi vincolo chimico, costringe di fatto la natura ad escludere tutte quelle possibilità che non si configurano. Si afferma solo quella possibilità che “obbedisce meglio ai soli vincoli fisiologici, grazie ai quali tutto verrà selezionato secondo la maggior coerenza ed efficacia che conferirà alla cellula o all’organismo”.

 Qual è allora la fonte della teleonomia? La causa ultima è la disposizione casuale dei nucleotidi del DNA che determina una sequenza altrettanto casuale di amminoacidi, che genera poi a cascata tutti gli eventi che caratterizzano il fenomeno della vita.

 Interessante, ma discutibile, la definizione di casualità del DNA come “assenza di regole che permettano di prevedere la successiva lettera”: l’osservazione è vera, ma non per questo il DNA appare non ordinato, anzi, è “il libretto di istruzioni della vita” (Collins, Direttore del Progetto Genoma Umano). Chiunque abbia studiato la biologia molecolare del gene ha incontrato solo che “regole”: il processo di lettura del DNA e di sintesi delle proteine avviene secondo un vero e proprio “protocollo”, che garantisce la vita stessa. Proviamo a riflettere su queste conclusioni di Monod.

Ci troviamo di fronte ad un paradosso epistemologico: il riconoscimento esplicito e scientifico della teleonomia come la cifra della vita non porta alla classica conclusione metafisica (esiste un Progettatore esterno) che ha nutrito interi millenni di umanità, ma al suo contrario: “l’antica alleanza è infranta: l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo.” (conclusione del libro).

Possono convivere le due conclusioni? O quale delle due è quella vera? Rinvio la risposta al lettore. Aggiungo alcune riflessioni nel merito delle argomentazioni utilizzate da Monod: parto dalla “gratuità del codice genetico”, il fondamento di tutto il suo castello ideale.

Se non esiste alcun legame chimico-fisico tra il messaggio e il suo significato, non si capisce perché la loro relazione dovrebbe essere determinata dall’ambiente: se la complementarietà materiale non è riuscita a legare i due oggetti, come possono fare due pezzi di lego, perché mai dovrebbe riuscirci un ambiente anonimo, che non ha alcuna affinità né alcun interesse? Come a dire: se i due pezzi di lego non si sono uniti perché hanno i fori e denti complementari, perché mai il tappeto su cui si trovano dovrebbe casualmente unirli? Insomma, l’ambiente di Monod ha proprietà morfogenetiche che né la chimica, né la fisica, né la biologia, gli attribuiscono.

 Che cosa c’entrano la temperatura, la pressione, la concentrazione iniziali, ma anche gli stessi atomi del DNA con tutto ciò che dovrebbe conseguire dalle loro informazioni: le membrane cellulari, i tessuti, gli organi, gli apparati, il naso, la bocca, gli occhi, lo sguardo stupito di chi ha appena letto il libro di Monod? Come si spiega solo a partire dal DNA che la cellula uovo, sferica e indifferenziata, in pochi giorni si struttura lungo tre assi, assume una forma allungata con una cavità interna che diventerà l’intestino, cresce e si differenzia formando un bambino completo di tutto, già dopo quattro settimane? Oggi si sa che gli esseri viventi sono organizzati a più livelli di complessità, uno sopra l’altro e non si possono spiegare a partire da quello sottostante: l’anatomia e la fisiologia del cuore non sono incluse nella cellula del miocardio, così come le proprietà della cellula non sono prevedibili a partire dai suoi ingredienti chimici,… e così via.

Credo che Aristotele avesse ragione, ancora nel IV secolo avanti Cristo: le cause finali sono il motore di ogni movimento. Le cellule del nostro corpo si comportano “come se” fossero consapevoli di quello che devono fare in ogni istante per realizzare il progetto della vita e della sua perpetuazione. Ma: possono essere consapevoli? Se non abbiamo evidenza sperimentale di questa condizione della materia, credo possa risultare ragionevole ipotizzare una Causa finale al di fuori del sistema.

 
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