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Deus caritas est, Dio è amore. Da questo dogma fondamentale prende il largo un bellissimo testo di Giorgio Carbone: “Ma la più grande di tutte è la Carità” (ESD).
]Bene o male, credenti e non, lo abbiamo sentito più volte. Forse tutti ricordiamo quelle parole di san Paolo: “se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita” (1 Cor 13,1)
Ma cos’è l’amore? La risposta cristiana è molto chiara: “La carità, essendo una partecipazione dell’uomo all’amore stesso di Dio, trascende l’ordine naturale e tutte le capacità umane. Perciò l’uomo non può dare a sé la carità. Essa è unicamente dono di Dio…la carità è nell’uomo in forza della giustificazione e del dono della grazia santificante, mediante il quale Dio rende l’uomo partecipe della sua vita”. Che la carità sia, come la fede, dono, non significa però che l’uomo non abbia un ruolo: egli è chiamato a meritarla e a disporsi ad essa, tramite le opere buone, i sacramenti, la preghiera...
Ecco che nella concezione cristiana l’uomo, da solo, non può fare nulla, ma con la grazia di Dio, invece, può trascendere la sua limitatezza, il suo egoismo, la sua miseria. Arrivando a compiere opere straordinarie, assolutamente più che umane, soprannaturali. Mi sembra che questa affermazione trovi conferma nella storia, in particolare in quella, affascinante, della carità visibile in lotta con le grandi malattie che nei secoli hanno funestato l’umanità del nostro continente.
Penso alla lebbra, nell’alto medioevo e sino al XII secolo; alla peste, micidiale portatrice di morte, nel basso medioevo; alla sifilide, causa di circa 20 milioni di morti nel primo trentennio del Cinquecento. Tutte e tre queste malattie hanno una caratteristica: sono contagiose, a parte la prima, e deturpano completamente il corpo, che diviene mostruoso, deforme, ripugnante. Tutto ciò rende l’amore verso i lebbrosi, gli appestati, i sifilitici, assolutamente poco umano. I monatti di Manzoni ce lo ricordano…
Ancora oggi, in India o in Africa, il lebbroso viene per lo più allontanato, scacciato, anche dai suoi stessi familiari. E’ un maledetto, e perde ogni diritto. Non è “umano”, infatti, abbracciare un lebbroso. Non è “naturale” andargli incontro e baciarlo. Eppure, oggi, anche in Africa e in Asia esistono centinaia di lebbrosari: fondati, pressoché sempre, da missionari. Da uomini in cui la carità di Cristo ha operato sino al punto di renderli capaci di imprese inimmaginabili.
L’Europa del XII secolo può vantare circa 19000 lebbrosari. C’è senza dubbio chi teme ed emargina queste figure ripugnanti, ma c’è anche chi, come San Francesco, pur provando inizialmente umano ribrezzo, li abbraccia, li bacia, li lava e li raccomanda ai suoi frati. A curarli non sono personaggi stipendiati dallo Stato, ma per lo più volontari, persone che danno la propria vita per il prossimo, vivificati dalla fede. Quale eroismo!
Ma è tutto l’ospedale moderno che nasce così: dall’opera volontaria di santa Elena e di santa Fabiola, di san Giovanni di Dio e di san Camillo de Lellis, persone in cui la carità di Dio opera veri e propri prodigi. Mi limiterò qui a ricordare brevemente la storia di un altro eroe della carità, piuttosto sconosciuto, esempio a mio modo di vedere straordinario di ciò che la carità di Dio può operare nell’uomo: Ettore Vernazza, fondatore della compagnia del Divino Amore.
E’, costui, un ricco e potente notaio genovese del XV secolo, discepolo di santa Caterina da Genova. Rimasto vedovo, dedica la sua vita a Dio e al suo prossimo, insieme a personaggi che diverranno dogi, senatori, papi. In particolare, la sua azione di instancabile organizzatore, è quella di creare i cosiddetti ospedali degli incurabili, prima a Genova (1497), poi a Roma, Napoli ecc…
Chi sono, a quest’epoca, gli “incurabili”? Sono i sifilitici. La sifilide entra in Italia, probabilmente, al seguito degli eserciti di Carlo VIII e delle migliaia di meretrici che lo accompagnano. E’ una malattia trasmessa per contagio sessuale, che colpisce prima le parti intime, poi tutto il corpo, sino ad intaccare la psiche e il sistema neurologico. “Propiziata da Venere, scrive il Cosmacini, e micidiale come Marte”.
E’ la lebbra, meglio, la peste dell’età rinascimentale. E’ un male dilagante. “Le persone, dichiara un testimone dell’epoca, si coprivano di grandi vesciche, pustole e ascessi su tutto il corpo ed erano talmente trasformate che guardarle era cosa orribile e spaventosa”.
Gli ospedali dell’epoca rifiutano questi “incurabili”, maleodoranti, contagiosi, fetidi. Vernazza, invece, si dedica a loro e invita a guardarli “come se fossero non uomini, ma quasi portatori in sé della persona stessa di nostro Signore”.
Instancabile nella preghiera e nell’azione, questo notaio che avrebbe potuto fare ben altra vita, si occupa anche degli orfani, dei poveri vergognosi, degli schiavi, e di costruire il Lazzaretto di Genova, colpita dalla peste. Proprio qui morirà, il 24 giugno 1524, chino come fra Cristoforo sui bubboni dei malati, assistendo i quali anche lui ha contratto la peste. Testimone, come tanti, del carattere soprannaturale della carità di Cristo. Il Foglio, 12 gennaio 2011