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Quando alcuni magi, venendo dall’Oriente, circa duemila anni fa, videro la “sua” stella, provarono una gioia infinita (in greco: ecàresan caràn megàlen sfodra; in latino: gavisi sunt gaudio magno valde).
E’ intraducibile l’espressione di gioia che devono aver provato, perché Matteo si serve, dal punto di vista filologico, prima del verbo, poi del termine stesso, quindi di un aggettivo che la amplifica e alla fine addirittura di un avverbio che la esalta all’infinito.
Certamente si tratta di un’espressione semitica trasposta in greco, ma non si può esimersi dal cogliere il messaggio chiaro e forte che, partendo da quella antica scena medioorientale, quindi esotica per noi, attraversa la storia e giunge fino a noi, per scaldare il nostro cuore, occidentale, moderno e refrattario alle emozioni.
C’è qualcosa di dolcissimo ma nel contempo di strano per noi, uomini colti ed europei, in quella gioia purissima che i magi provano nel vedere la sua stella.
Qualcosa di strano: per prima cosa, non siamo abituati a sentimenti così veri, trasparenti ed avvolgenti al punto da trasformare tutto l’essere per appagarlo. Noi viviamo di attimi, di frammenti, di espedienti; non abbiamo tempo per esperienze durature e tanto meno abbiamo voglia di verità definitive, che pongono termine alla ricerca.
Essere in movimento e in ricerca, perennemente inquieti, angeli e demoni a momenti alterni: questa è l’unica condizione di vita politicamente corretta per l’Homo faber, che si misura con l’efficienza e ha chiuso il conto con il pensiero forte.
Questa gioia grandissima, suscitata dal vedere una stella, è come un raggio di luce che trapassa il nostro cielo coperto di nubi e ci svela lo sfondo azzurro e luminoso che abbiamo dimenticato.
E’ come un brivido che scende lungo la schiena, ci risveglia e ci apre ad un mondo che non pensavamo più reale.
Quanto abbiamo tutti bisogno di qualcuno capace di una gioia grande, grandissima!
Qualcosa di strano: per seconda cosa, siamo stupiti, noi, tecnologici e scienziati, che ci siano stelle che possano indicare una Divinità.
Non c’è spazio nei nostri campi visivi, nemmeno nei telescopi o nelle sonde spaziali, per questi oggetti che hanno la pretesa di essere di più della materia di cui sono fatti. Chi li ha mai visti?
Noi sappiamo misurare tutto quanto ci circonda, sappiamo pesarlo ed analizzarlo: nulla ci può sfuggire. Come può essere che una stella si muova e ci conduca ad un Dio di cui non solo non vogliamo parlare ma di cui non abbiamo assolutamente bisogno?
Noi bastiamo a noi stessi e l’Universo basta a se stesso. Punto e a capo.
Eppure lo sguardo di nostro figlio è lì, nel cielo del nostro orizzonte quotidiano, a ricordarci che il suo e il nostro mistero sono infinitamente più grandi di tutte le stelle del firmamento. E le stelle, il mare, i monti e tutto il pullulare di vita che osserviamo intorno a noi sono un segno immenso, che non riusciamo a decifrare se non come preziosissimo scrigno di un Dio onnipotente e pieno di amore per noi.
Quanti segni, nel nostro orizzonte! Quanta materia ordinata che ci parla di Lui! Quanti codici, quante leggi e quanta complessità abbiamo a disposizione, più di quanto potessero vedere i Magi duemila anni fa!
Non lasciamoci sfuggire questa prima occasione del nuovo anno 2011: per fare come i Magi bastano due cose: un pizzico di umiltà e un po’ di scienza.
Umiltà, perché nessuno di noi si è fatto da solo e scienza, perché svelandoci la struttura intima della realtà fa nascere spontanea la fede.