E’ormai tempo di bilancio anche per il sistema sanitario trentino che manifesta una crisi palese e di tipo strutturale.
A nulla servono i maldestri tentativi di difesa, vuoi del Direttore Generale, vuoi dell’assessore competente, per nascondere una situazione che se non risolta immediatamente prefigura elementi di difficoltà innegabile. E alcuni prese di posizione degli ultimi tempi lo testimoniano. Il presidente dell’Ordine dei medici della Provincia afferma che nel servizio sanitario provinciale “è palpabile la presenza di un clima difficile”. Ed anche il primario Eccher ha denunciato la difficile situazione dell’ospedale principale della provincia, il Santa Chiara di Trento, oggetto di una ristrutturazione costosa ed inutile con gravi carenze di organico che minano la capacità operativa dei reparti e con una qualità della degenza che è rimasta ferma a vent’anni fa. E poi la Borgonovo Re che censura la lettera di richiamo del direttore dell’Azienda alla dott.ssa Giannelli.
Tutto questo con un costo pro capite della sanità a carico del bilancio provinciale che è superiore alla media delle altre regioni italiane. A questo livello ricordo l’affermazione dell’allora Ministro della Sanità Rosi Bindi che in un convegno a Trento di qualche anno fa disse che sicuramente la qualità del sistema sanitario provinciale era discreta, ma per le risorse pubbliche investite sarebbe dovuto essere ottimo.
Ma andiamo con ordine.
Penso di interpretare lo stato d’animo della maggioranza dei nostri cittadini, sentimenti misti a sconcerto, delusione e talvolta anche di rabbia, quando recentemente è stata data notizia che a fronte dell’ennesima incapacità dimostrata dal nostro sistema sanitario di rendere più accettabili i tempi di attesa per effettuare visite specialistiche, il Direttore Generale è stato penalizzato con una riduzione del suo premio annuale. Poche centinaia in euro in meno, peraltro non sullo stipendio (che ricordo è sempre il più alto non solo tra i manager pubblici della nostra provincia), bensì su una voce aggiuntiva, appunto un premio.
E proprio tempi di attesa e mobilità passiva, ovvero la necessità per i nostri cittadini di doversi recare fuori regione per trovare una risposta di cura ai loro bisogni, rappresentano, a mio avviso, due elementi che risultano inaccettabili per la nostra comunità che destina al sistema sanitario una quantità di risorse economiche tra le maggiori nel contesto regionale nazionale.
Ricordo che l’abbattimento dei tempi di attesa per l’effettuazione di prestazioni specialistiche è un obiettivo che l’Assessorato da ben 6 anni assegna all’Azienda sanitaria. E cosa è stato fatto in tutto questo tempo. Ricordo ancora che diverse volte abbiamo assistito a proclami celebrativi dell’Azienda e dell’assessorato, che esultavano dicendo che avevano finalmente trovato la chiave di volta per abbattere questi tempi di attesa; si sono celebrati persino dei convegni in proposito. Ma allora mi chiedo. Ci ha impiegato tutti questi anni il sig Assessore per accorgersi che era tutta una bufala e che il problema giace irrisolto come e più di prima?
Debbo riconoscere che su tale aspetto alcune componenti sindacali, e solo recentemente, lo stesso ordine dei medici, hanno vigilato con attenzione e più volte hanno richiamato l’opinione pubblica che le cose in sanità non sono poi tutte rose e fiori.
Mobilità passiva. E’ questo forse l’aspetto più rilevante. Basti pensare che oltre al disagio per i trentini di doversi recare fuori provincia, tale situazione costa al bilancio provinciale circa 85 milioni di Euro all’anno e che solo a titolo di esempio all’ospedale di Negrar in pochi anni gli interventi ed esami per residenti in Provincia di Trento sono passati da 700 a 5000 all’anno. La mobilità passiva è la somma di ben tre negatività. L’incapacità di un sistema sanitario di offrire tempestive risposte ai bisogni di cura, la conseguente necessità che il paziente trovi queste risposte al di fuori del proprio contesto provinciale di appartenenza, ed infine l’obbligo da parte della nostra Provincia di rimborsare ad altre regioni le spese sanitarie che queste hanno sostenuto per curare i nostri trentini.
E se tutto questo non bastasse ancora, vi possiamo aggiungere altri rilevanti elementi negativi. Se i trentini vanno fuori provincia per farsi curare, sempre meno sono i pazienti di altre regioni che vengono da noi per ricevere cure. Il nostro sistema ha perso di attrattività, si è impoverito sul piano della capacità di offerta professionale, sul piano della qualità. I trentini vanno fuori provincia non solo per ottenere prestazioni che qui non hanno, ma anche, cosa assai grave, per avere prestazioni che qui vengono erogate. E’ questo un sintomo di grande allarme. Significa che siamo di fronte ad un crollo di fiducia, di mancanza di stima generale.
E infatti in questi anni sono mancati interventi significativi volti a valorizzare le diverse componenti del sistema, a partire dai medici e infermieri professionali, non si è pensato di attivare un accordo sinergico con l’ordine dei medici finalizzato a realizzare investimenti seri sul piano della professionalità medica. La comunicazione istituzionale è stata gestita al ribasso e non ha inciso in maniera oggettiva su comportamenti e abitudini. Una comunicazione troppo autoreferenziale e spesso gestita in rimessa.
Enormi investimenti, con un costo sociale impressionante, invece sul piano dell’edilizia sanitaria per avere un ospedale a Trento in perenne ristrutturazione e un nuovo ospedale forse tra dodici anni, a fronte di una non chiara politica sugli ospedali periferici. Una sottolineatura forte al riguardo va fatta sul caso dell’Ospedale San Lorenzo di Borgo. Il punto nascite funzionante all’interno dell’Ospedale S. Lorenzo di Borgo Valsugana dal giorno 7 agosto 2006 ha cessato l’attività e ciò in ossequio alla deliberazione della Giunta Provinciale n.1496 del 21 luglio 2006 punto 3 del dispositivo.
E’ stato detto che non c’erano i numeri per tenere in vita il punto nascite, è stato anche detto che non erano presenti le figure professionali previste dalla normativa vigente per garantire la massima sicurezza alle partorienti ed ai neonati ed è stato soprattutto detto che questo stato di cose non poteva essere cambiato.
Sono ragionamenti che danno da pensare su come chi ci governa intende assicurare alla popolazione i servizi di cui essa ha bisogno; perché è certo, malgrado quello che stabilisce la Giunta Provinciale, che in Valsugana, e non solo, si continuerà a concepire e a nascere e quindi un punto nascite ben organizzato dovrebbe esistere per soddisfare i bisogni connessi al concepimento ed alla nascita.
Facendo qualche conto si vede che la popolazione della Valsugana, Alta e Bassa, è di circa 85000 (ottantacinquemila) abitanti, considerando che la natalità è di circa l’uno e mezzo per cento della popolazione, tra Alta e Bassa si dovrebbero raggiungere sicuramente, se ci fosse un punto nascite organizzato e ben strutturato 500 nascite all’anno.
E invece cosa è successo? Agli atti non vi è neppure un tentativo non solo di costituire un punto nascite, ma neppure di potenziare ed adeguare quello esistente; si dice per mancanza di figure professionali adeguate, ma quali azioni sono state intraprese per reperire queste figure? Che tipo di programmazione a medio termine è stata fatta per rendere appetibile il punto nascite di Borgo Valsugana per i professionisti del settore?
Sembra proprio che il reale disegno di questa Giunta Provinciale sia la riduzione degli Ospedali periferici a poliambulatori. E’ stato in tempi non lontani fatto con l’ospedale di Levico Terme potrà benissimo accadere anche ad altri.
Ho citato il caso di Borgo Valsugana perché lo ritengo esemplare della considerazione che questa Giunta e questa Azienda sanitaria hanno nei confronti del ruolo degli ospedali periferici, ciò a dispetto dei tanti proclami di valorizzazione della famosa periferia.
A fronte di questa situazione credo che divenga irrinunciabile imporre al nostro sistema sanitario una inversione di rotta drastica e immediata. Un’inversione di rotta che parta dalla valorizzazione piena delle componenti professionali in gioco, attraverso un loro coinvolgimento responsabile, un’inversione che sappia riconsegnare gradualmente fiducia al sistema nel suo complesso anche attraverso una riorganizzazione profonda e coraggiosa dei servizi offerti. In merito evidenzio solo un’altra partita persa: la definizione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che poteva rappresentare un’occasione per avviare un confronto eccezionale con i nostri cittadini per la definizione dell’appropriatezza dell’assistenza specialistica e di quella ospedaliera. Anche in questo caso è mancata programmazione politica, capacità manageriale e comunicazione alla collettività che poteva almeno essere condotta con il coinvolgimento delle associazioni rappresentative dei cittadini.
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