“Preti di carta” è l’ultimo lavoro di Vittorino Andreoli non nuovo a confrontarsi sull’intrigante figura del prete. L’intento della sua fatica potrebbe risolversi in una domanda, eco di una straordinaria provocazione del Messia ai suoi discepoli, “E voi chi dite che il prete sia?” .
Il “voi” è rivolto non a teologi, abili nel discettare delle cose sacre; non ad acuti pensatori capaci di indagare il Mistero sotteso a questa curiosa figura che è il prete cattolico (il pastore protestante è davvero, in questo senso, molto meno significativo e affascinante); non a sociologi, esperti dei comportamenti e delle complessità sociali che coinvolgono questo uomo la cui pretesa è di portare Dio in mezzo alla città degli uomini. Nemmeno a psichiatri. No, in questo libro la domanda è posta ad altri. Neppure loro, i preti o i Vescovi che incarnano la pienezza del sacerdozio sono chiamati a rispondere.
Questa domanda, singolarmente preziosa in questo mutevole tempo dove pare riemerga il senso del sacro, ma non vi sia spazio per un consacrato, l’autore la pone alla letteratura. E’ come se dicesse: “E voi, voi che scrivete, voi romanzieri, voi artisti dell’inchiostro e delle pagine bianche chi dite che il prete sia? Quale coscienza ha il prete di sé? Quale mistero porta dentro di sé? Chi ritiene di essere il prete?”.
La letteratura, per sua natura, indaga l’oltre della realtà sottraendosi alla descrizione di fatti o alle sue analisi, divenendo al medesimo tempo, più vera della cronaca e più profetica di una proiezione statistica racchiusa in un saggio.
Mi sembra questa dell’Andreoli, un’operazione coraggiosa almeno per due ragioni.
La prima per il soggetto scelto: il sacerdote.
Indubbiamente pur in una società come la nostra scevra nei suoi confronti di riverenze ossequiose, l’uomo di Dio costituisce e rimane una figura singolare. Nella raccolta dell’autore si evince che è soprattutto il pastore d’anime, quello che un tempo si diceva “curato, perché la sua missione è costituita dalla “cura animarum” ad essere oggetto di un’attenzione specifica al punto da costituire un vero e proprio filone letterario come anche suggerisce il vaglio dell’autore. Indubitabilmente minor interesse, letterariamente parlando, suscita il religioso la cui scelta lo apparta dal mondo per vivere una vita comunitaria e quindi meno compromessa col mondo.
Dunque, perché il prete, il curato, è oggetto di questa attenzione mass mediatica, culturale, infine letteraria? Mi pare di ravvisarla nel mistero che egli esercita sull’uomo contemporaneo, così radicalmente occupato nelle questioni misurabili e quantificabili. Il sacerdote è qualcosa di mai visto, eppure a portata di mano. La sua pretesa così vicina a me è scandalosa e affascinante. Il sacerdote sa di essere uomo e cerca la definizione della propria umanità in una lotta con il Mistero che lo ha affascinato un giorno al punto da lasciare tutto e cercare Lui solo. Non nella solitudine, ma in mezzo agli altri uomini, prendendosi cura delle loro incredulità, delle loro fatiche, dei loro limiti, percorrendo le nostre strade, entrando nelle nostre case, indicandoci la via al cielo.. E’ questa tipicità del sacerdote a destare il suo fascino pienamente corrispondente alla natura cattolica di Dio che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Non un uomo in fuga dal mondo. Un uomo nel mondo, eppure di Dio. Questo rende il prete un insolito conoscitore dell’umano. Lo strumento della confessione e una vita tangente al male dell’uomo lo colloca in un punto di fuga interessante per chi vuole, come il romanziere, cogliere il Mistero della vita e del cuore umano. E’ un maestro di vita non per chissà quale cultura egli abbia, ma perché è colto di vita. La vita degli uomini gli si riversa dentro all’anima. Tuttavia in Lui non c’è una sapienza di sola esperienza come uditore e confidente delle vicende più disparate alla stregua di uno psichiatra o di un psicologo. In Lui abita Dio stesso. La Grazia di Dio passa attraverso di Lui. La sua conoscenza dell’uomo non gli deriva semplicemente da una lunga frequentazione del confessionale, ma dalla luce stessa della Rivelazione di Dio e della Chiesa che chiama la ferita di tutte le cose peccato originale. E’ questa chiave di lettura che gli consente di chiamare le cose col loro nome e di poter avanzare una medicina adeguata. Il sacerdote è un cercatore di senso perché la sua vita, altrimenti sarebbe un controsenso. Un casto che vive nel rammarico della sua castità, un celibe che aspira ad una compagnia, un uomo di Dio che tende alle cose del mondo. Se così fosse, la sua vocazione si ridurrebbe a caricatura e a stereotipo come il don Gastone de “Il prete bello” di Parise.
La seconda ragione per cui il lavoro dell’Andreoli è senza alcun dubbio ambizioso è il luogo in cui ha verificato, misurato, constato, il mistero che attraversa questo tipo d’uomo che è il sacerdote: la letteratura. Non si tratta di un opera del tutto originale. Prima di lui, Umberto Gamba col suo “Preti famosi” e, soprattutto in riferimento alla sola narrativa italiana, Vincenzo Arnone col suo “I preti nella letteratura del Novecento” si sono cimentati in analoga ricerca. “Preti di carta” è indubbiamente un’opera più approfondita per la mole delle opere consultate e per l’arco temporale abbracciato. Basti come esempio che vi si trova Giovannino Guareschi con il suo memorabile don Camillo saltato a piè pari dai lavori del Gamba e del valido Arnone. Allo stesso tempo, rincresce che non vi abbia posto un autore straordinario come Fuschini, il prete romagnolo alter ego dell’emiliano don Camillo.
Nonostante questo, mi pare che ancora manchi un lavoro sistematico che provi a risanare il rapporto tra letteratura e teologia o anche solo questo “topos” di ricapitolazione della teologia che è il prete. In lui, in fondo, si ritrova il senso di Dio, l’immagine della Chiesa, la prossimità di Dio alla vita degli uomini. In fondo, la letteratura – e questo lavoro di raccolta lo rende evidente - è affascinata dall’uomo di Dio quantunque mai come in questo tempo si cerchi di infangare la sua missione. Da inizio secolo fino a qualche decennio fa, è apparsa una folla numerosa di preti di carta da costituire un vero e proprio filone letterario. . Quel che manca è uno studio più accurato ancora che rivisiti, senza pregiudizi e senza sospetti, il capitolo la della teologia con la narrativa, troppo superficialmente, ricondotta a qualcosa di effimero. Negli scorci di brani selezionati da Andreoli si possono cogliere la gentilezza di alcune parole, la potenza di alcune suggestioni (come non pensare al Cristo che parla a don Camillo, autentica evidenza d’amicizia tra il sacerdote e il Crocifisso), la verità di alcune espressioni degne della più alta riflessione teologica. C’è una poesia nella prosa letteraria che, troppe volte manca al linguaggio ecclesiale così forzatamente intellettualistico se non addirittura autoreferenziale e, ultimamente, noioso.
La presenza dell’autore nella triplice scansione con cui affronta ciascun romanzo è appena accennata, quasi pudica, forse conscia di non poter accedere fino in fondo al mistero affrontato, non abile, in fondo, a colmare lo scarto che esiste tra l’arte del narrare e quella del teologare.
Che risposta emerge da questa bella e curiosa raccolta che attraversa la letteratura italiana di un secolo alla domanda con cui ho riassunto l’intento dell’autore? Mi pare di ravvisare una risposta duplice. La letteratura, infatti, si pone come una lente d’ingrandimento con cui ravvisare le grandi mutazioni interne all’idea stessa di sacerdozio, ma anche sussurrare tra le righe dei tanti romanzi visionati un suo nuovo profilo. Scorrendo la carrellata di romanzi si scorge una progressiva mutazione dell’identità sacerdotale. Le strutture che disciplinavano l’essere e l’esistenza di un presbitero lo ordinavano e lo custodivano. Gli anni post-conciliari, i cambiamenti sociali e culturali degli anni ’70, la disgregazione della famiglia e dell’appartenenza sociale, la subalternità della Chiesa alle ideologie imperanti e una sua improvvisa incertezza sulle verità della fede hanno minato la possibilità di una risposta omogenea a quella medesima domanda.
Il prete di questi ultimi decenni ha visto la terra muoversi sotto i piedi o se vogliamo rimanere in tema, ha visto voltare molte pagine attorno alla sua persona.
Se un tempo, suo compito primario era il culto, ora i campi del suo intervento sono molteplici; se il rapporto con l’universo femminile era definito da alcune raccomandazioni, difeso dall’abito ecclesiastico, protetto da una sana, forse, in alcuni casi, eccessiva prudenza, da una consapevolezza del senso del peccato, ora questa dinamica relazionale è radicalmente mutata per un disinibito approccio della donna e un inopportuno, disinvolto atteggiamento amicale da parte del prete; se il mondo (il calcio, la moda, la televisione…) si affacciava saltuariamente alle porte della canonica e della Chiesa, ora la Chiesa stessa è nel mondo, forse, per certi versi perfino del mondo.
C’è una pagina bellissima di un libro di Parazzoli che l’autore non prende in considerazione e che testimonia in modo drammatico l’indubbia confusione che regna nel sacerdote stesso a riguardo della sua identità. E’ un prete di carta, don Ennio a parlare:
“Quando rivolgo ai miei compagni di corso cosa sia l’essenziale per noi preti, mi rispondono in modo variegato: essenziale è mantenere viva la spiritualità con una vita di preghiera. Essenziale è l’annuncio del vangelo e la celebrazione dei sacramenti. Visitare gli infermi, i campi estivi per i giovani, la catechesi, l’amore, carità, sacrificio, dedizione, tenacia. (…) Insomma non hanno le idee chiare nemmeno loro. Del resto, veniamo fuori da una stessa matrice, il Seminario. Ci somigliamo tutti”. Da dove deriva questa incertezza? Sicuramente da una Chiesa confusa. Una Chiesa che è meno il luogo del mistero e più luogo il cui confine col mondo si sbiadisce. In questo tipo di Chiesa, anche la figura sacerdotale si scolora perdendo ciò che più lo rende affascinante: un uomo che è qualcosa di più di un uomo. Un uomo che vive di Dio pur con tutte le fatiche, i limiti e il peso della sua umanità eppure mediatore, per ogni uomo, di questo medesimo anelito. C’è un romanzo di G.Green “Il potere e la gloria”, ambientato nel Messico massonico e persecutorio nei confronti del clero degli anni ‘20 in cui più che in ogni altro scritto teologico si comprende come irriducibile sia nel protagonista, un sacerdote sposato, ridotto ad un ubriacone, la mediazione tra Dio e le anime di di quanti gli si rivolgono.
Il libro di Andreoli ha due caratteristiche finali. Il suo è un libro che si può leggere senza impegno. E’ un libro da comodino. Uno di quei libri che si possono aprire a caso e leggerne alcune paginette. Non importa leggerlo dall’inizio alla fine. C’è questo intento. E’ un’antologia di romanzi alcuni dei quali meritano di essere gustati alla fonte. Ha la qualità di suggerire un percorso di letture in qualche modo affascinante dentro il quale il lettore può rispondere, questa volta lui, “chi il prete sia”. Sì, perché il saggio di Andreoli è una provocazione per guardare con uno sguardo diverso i tanti preti di carne nei quali la nostra vita s’imbatte.
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