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Vieni via con me e la lezione di Karol
Di Marco Luscia - 18/11/2010 - Attualitą - 1245 visite - 0 commenti

Saviano e Fazio sono due giornalisti e insieme hanno confezionato una superficiale rappresentazione del dramma infinito della malattia e della morte. Hanno banalizzato la lezione che il mistero del dolore sparge nelle nostre distratte vite riducendo tutto a poche frasi stereotipate. Il medium televisivo ha parlato con l'unica parola che conosce, lo slogan; ha sentenziato alla ricerca della sensazione e dello share e sembra aver vinto.

La televisione è per natura rapida nel linguaggio, come uno spot dirompente di un qualsiasi prodotto ha annullato ogni profondità. Nessun tempo per la riflessione, solo l'emozione interessa, solo la lacrima e la trama di una storia che avvinca. Si è parlato di eutanasia chiamandola accanimento terapeutico, le carte prima confuse, hanno in breve scoperto il loro segreto; l'uomo ha il diritto di morire quando vuole. Ma un diritto deve arricchire l'uomo e il suo essere, esso non toglie, ma dona, per realizzare le nostre potenzialità al meglio. Non può dirsi un diritto la rivendicazione di chi vuol morire, perché la fonte di ogni diritto è l'uomo vivo, concreto.

Rosmini diceva che l'uomo è il diritto sussistente e ben vedeva. Sia ferito che menomato, sia senziente che incosciente, egli ha diritto al rispetto, egli è un diritto che splende; anzi quanto più la natura appare sopita, ritratta, debole, tanto più l'uomo rivela la sua radice misteriose ed eterna. Una povera fiamma che arde nel buio splende più di un milione di fari nella luce del sole.

Quella fiamma fu Karol, il grande Papa malato, l’uomo che testimoniò la forza della croce nel buio di un male che lo aggredì da tutti i lati. E subito la tenue luce di quella vita fu sostenuta da mille braccia d'amore, da mille intelligenze, altre, che ressero gli ultimi tempi di Karol, supportandone il pensiero e la parola. Eppure, proprio in quella sofferenza, in quella povertà manifestata, in quell'impotenza, Dio si fece presente. C'era nel sussurro confuso delle parole del Papa, un che d'eterno, una voce che rendeva le nostre orecchie e i nostri sensi attenti ai respiri, ai palpiti più leggeri. Come la croce di Cristo, una croce senza parole.

Quando la natura è svilita, quasi vinta, allora in essa si fa spazio Dio. Perché nella nostra fine c'è un'attesa di compimento che l'illusione dei sani difficilmente avverte. C'è più poesia in un rudere che in un'opera integra, nell'incompiuto che nel finito. C'è più poesia nella malattia e nella sofferenza che non nella salute. Perchè? Perchè nella forza piena e nella troppa luce si perde il senso della profondità.

La mancanza interroga, la poesia lo dice, lo testimonia e perciò essa è porta verso il “vero.” Nelle stanze dei malati cronici senza speranza, che non parlano, che sono solo presenza, fiorisce ogni giorno la grazia della dedizione, fiorisce la speranza. E tutto questo rivela il mistero d'amore per cui siamo fatti, il desiderio di un bene assente, che ci perseguita. Allora, se facciamo attenzione, scopriamo come il senso di una vita non stia nel corrispondere a un modello di salute, ma nel vivere gli uni con gli altri, gli uni negli altri, in una rete di rapporti e di attenzioni che donano ad ogni cosa e attimo un valore inestimabile. Allora, non resta che l'amore, fatto di cura, un amore che fa di ogni essere umano, un re, un principe, alla cui tavola siede la nostra povera vita così spesso preoccupata soltanto di se stessa.

Questo è il non detto della trasmissione tv, uno spettacolo allestito per affermare un diritto che non esiste, in nome di un uomo astratto che non esiste.

 
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