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di Cristiano Andreatta
Sulla vita di san Benedetto da Norcia, patrono d'Europa e dell'attuale Pontificato, santo Patriarca dei monaci d'Occidente, abbiamo sostanzialmente due fonti. Una di esse è la biografia del santo, scritta un cinquantennio dopo la morte (avvenuta, secondo la tradizione, nell'anno 547) del fondatore di Montecassino, dal Papa san Gregorio Magno (ca. 540-604). A quest'opera si aggiunge, fondamentale, la Regola, opera dello stesso san Benedetto. Si tratta del suo unico scritto rimastoci ed è quindi di importanza capitale, anche perché, come sottolinea san Gregorio Magno, “se c'è chi vuole conoscere a fondo i suoi costumi e la sua vita, può trovare negli insegnamenti della regola ogni atto del suo insegnamento, poiché il sant'uomo non insegnò in alcun modo diversamente da come visse” “cuius si quis velit subtilius mores vitamque cognoscere, potest in eadem institutione regulæ omnes magisterii illius actus invenire: quia sanctus vir nullo modo potuit aliter docere quam vixit” (S. Gregorio Magno, II Dialoghi, 36).
Assodato dunque che la Regola è un documento fondamentale per conoscere il pensiero di san Benedetto, prima di accingermi a tentare di darne un modesto tratteggio per quanto concerne le parti dedicate alla sacra liturgia, vorrei subito sottolineare come, dinanzi a certa mentalità moderna, le prescrizioni della Regola possono apparire dure, difficili, persino pesanti. Eppure san Benedetto non sembra affatto della medesima opinione: egli descrive infatti la sua opera come “minima regola per principianti” - “minimam inchoationis regulam” (Regola di san Benedetto – d'ora innanzi abbrevio in RB – LXXIII, 8) e anzi, nel Prologo afferma “speriamo di non prescrivere nulla di gravoso” - “nihil grave nos constituturos speramus” (RB, Prologo, 46). Il percorso che santo nursino delinea è, per la sua epoca, più leggero di altre regole monastiche coeve; oggi, a noi moderni, esso appare di una certa durezza, ma non dobbiamo dimenticare che l'intento è quello di “emendare i vizi e conservare la carità” - “emendationem vitiorum vel conservationem caritatis processerit” (RB, Prologo, 47) e per fare questo bisogna passare per un “angusto inizio” - “angusto initio” (RB, Prologo, 48), per poi, col progredire nel percorso di conversione, “correre per la strada dei comandamenti di Dio” - “curritur via mandatorum Dei” (RB, Prologo, 49). Questo programma si esplica in un modello di vita totale, che san Benedetto propone non tanto come una sorta di “modello proprio”, ma come un percorso terreno per mettere in pratica i precetti evangelici. Qui mi concentrerò sulla parte liturgica, ma la Regola non si limita ovviamente ad essa e abbraccia l'ambito intero della vita del monaco: non però come una costrizione esterna, o come un modo per limitare la cristiana libertà dell'individuo, ma come un percorso, cui liberamente accedere, per liberarsi dalla schiavitù del peccato e giungere alla libertà dei figli di Dio. Del tutto diverso, quindi, dalle terrificanti imposizioni esterne degli Stati e delle ideologie totalitarie del Novecento e pure della nostra epoca.
Detto questo, si può passare a tentare di pennellare qualche tratto (l'argomento è vasto e la bibliografia sterminata) sull'argomento specifico di questo scritto: san Benedetto e la liturgia. Quest'ultima, nella Regola, viene spesso chiamata “Opera di Dio”, “Opus Dei”: ad essa non va preposto nulla - “nihil Operi Dei præponatur” (RB, XLIII, 3). Certo, vi sono anche altre occupazioni cui attendere, ma la preghiera, specie corale e liturgica, dovuta al Creatore è opera che il monaco, secondo san Benedetto, non può trascurare o considerare come accessoria.
E come è organizzato, l'Ufficio Divino, nella Regola? A questa materia il santo dedica numerosi capitoli (ben 13: dall'VIII al XX). Le Ore sono in tutto otto: Ufficio notturno, Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta.
Questo numero è motivato da due citazioni bibliche: secondo il salmo 118, 164 “Sette volte al giorno io ti lodo” “Septies in die laudavi te [Vulg.]” “Septies in die laudem dixi tibi [RB XVI, 1]”: di qui le sei ore diurne, cioè quelle da Lodi a Compieta comprese. La preghiera notturna è invece motivata con un'altra citazione scritturistica (Sal 118, 64): “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” “Medio noctis surgam ad confitendum tibi [Vulg.]” “Media nocte surgebam ad confitendum tibi [RB XVI, 4].
L'Ufficio notturno nei giorni feriali viene recitato subito dopo la levata (in inverno avviene all'ottava ora della notte, cioè verso le due mattino; in estate l'ora dell'alzata viene calcolata in modo che tra il Mattutino e le Lodi intercorra solo una breve pausa, comunque sempre verso le due del mattino) e dura circa un'ora e mezza (un po' più d'inverno e un po' meno d'estate); il Mattutino festivo differisce per essere più lungo di quello feriale.
L'Ufficio notturno feriale è composto da una parte iniziale fissa e da due notturni; ogni notturno è composto da 6 salmi seguiti da 3 letture, queste ultime intercalate da responsori. Tra i due notturni trova posta la benedizione data dall'abate. In estate, data la brevità della notte, invece di 3 letture se ne fa una soltanto, seguita da un breve responsorio. Alla fine c'è una breve conclusione.
L'Ufficio notturno festivo, invece, è composto anch'esso da una parte iniziale fissa, ma i notturni sono 3. I primi due sono composti ognuno da 6 salmi seguiti da 4 letture; ogni lettura è seguita da un responsorio. Il terzo notturno, invece, è composto da tre cantici tratti dai Profeti, un versetto e 4 letture, ognuna con il proprio responsorio. Dopo di ciò l'abate intona il Te Deum laudamus si legge una lettura tratta dal Vangelo e si fa una breve conclusione.
Alle Lodi si recitano 7 salmi; a Prima 3 (tranne la domenica quando si recitano quattro strofe del salmo 118); a Terza 3, a Sesta 3, a Nona 3, a Vespri 4 (tranne il lunedì quando se ne recitano 5) e a Compieta 3 (Compieta è fissa ogni giorno, si recitano sempre e solo i salmi 4, 90 e 133).
Per ognuna di queste Ore vi sono altri elementi, che qui non tratto per non appesantire eccessivamente la lettura dell'articolo.
Alcune annotazioni, però, possono essere utili. Si può ad esempio sottolineare come san Benedetto preveda una liturgia particolarmente importante per le domeniche (ed anche nelle feste dei santi e nelle solennità), per evidenziare l'importanza di questi giorni all'interno del percorso dell'anno liturgico. Il santo nursino ha poi particolare cura nell'adottare il Gloria Patri e l'Alleluia: per il primo, si tratta di mettere in risalto tramite esso l'ortodossia nicena contro l'eresia ariana: quest'ultima non riconosceva la consustanzialità del Padre e del Figlio, subordinando il secondo al primo. L'alleluia è invece un'espressione della gioia pasquale che il monaco eleva al cielo.
I salmi sono sempre cantati, talvolta con appropriate antifone, e quindi non deve stupire se proprio nei cenobi benedettini il canto gregoriano troverà ricezione, sviluppo ed armoniosa cura.
La preghiera corale sin qui delineata non è una completa invenzione di san Benedetto: egli si ispirò sia alla tradizione monastica a lui precedente. In campo liturgico egli ricalca la liturgia romana del suo tempo, adattandola ed arricchendola secondo le proprie esigenze. Numerose parti della Regola (non molto in campo liturgico, però) san Benedetto le ricava da uno scritto a lui poco anteriore, la Regula Magistri.
Purtroppo, gran parte dei monasteri ha abbandonato questo rito venerando per nuovi schemi di preghiera; si è deciso quasi sempre di non adottare l'ora di Prima, che è stata espressamente abolita dal Concilio Ecumenico Vaticano II; eppure era possibile conservarla, se si fosse ritenuto buona cosa farlo (come è accaduto presso i Certosini). Oggi la recita di Prima e del breviario propriamente benedettino è oramai limitata alle comunità tradizionali; in alcuni monasteri (ad esempio Solesmes) si è mantenuto la liturgia benedettina ma senza l'ora di Prima (per cui i salmi che andavano recitati a Prima, cioè l'1, il 2, i salmi dal 6 al 19 e parti del 118, sono stati distribuiti nelle altre ore). Va però detto che san Benedetto stesso previde questa possibilità, perché nella Regola scrisse: "Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede, purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo." (RB 18, 22-23) Purtroppo, in alcuni monasteri, nemmeno questa prescrizione viene salvata e la recita completa del salterio avviene in più settimane.
Alcune comunità monastiche hanno però mantenuto o adottato il rito benedettino per l'Ufficio divino e dunque mantengono viva la preghiera corale che ha alimentato la vita spirituale di schiere di monaci per quasi quindici secoli.
Passando oltre, potrà forse essere una sorpresa scoprire che la Regola non tratti della Santa Messa se non accendandovi in alcuni passi, ma quasi di sfuggita. Questo non è segno di scarsa pietà eucaristica da parte di san Benedetto ma, forse, di tralasciare ciò che appariva ovvio agli occhi dei monaci (cioè la centralità della Santa Messa). A questo si aggiunga che nel V-VI secolo la celebrazione eucaristica era soprattutto quella domenicale e festiva (pur se non era rigidamente proibita la celebrazione infrasettimanale), in modo da sottolinearne l'importanza. Solo nei secoli successivi andrà sempre più diffondendosi la prassi della celebrazione quotidiana (che, per inciso, ricevette un forte impulso dalla congregazione cluniacense, che adottava la Regola benedettina).
Più spirituale è invece l'argomento dei capitolo XIX e XX. Nel primo, “Sul modo di salmodiare” - “De disciplina psallendi”, san Benedetto esorta a far sì che il canto esteriore concordi coll'atteggiamento interiore, salmodiando con timore e sapienza, poiché la liturgia terrena partecipa, in qualche modo, di quella celeste. E' quindi necessario che il monaco si impegni poiché il suo salmodiare non è una semplice opera umana che circola tra i suoi soli fratelli, ma un canto “al cospetto di Dio e degli angeli” “In conspectu Divinitatis et angelorum eius” (RB 19, 6).
Simile è anche l'argomento del capitolo successivo, il XX, (Sulla riverenza nella preghiera – De reverentia orationis), in cui il monaco è esortato a pregare con umiltà, reverenza, sincera devozione. E poi, afferma san Benedetto, “noi sappiamo di essere esauditi non per l'eccesso di parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione delle lacrime” “Et non in multiloquio, sed in puritate cordis et compunctione lacrimarum nos exaudiri sciamus.” (RB XX, 3) rieccheggiando qui parole del Signore Gesù (cfr. Mt 6, 7-8).
L'importanza attribuita alla liturgia corale è tanta da consigliare a san Benedetto di riservare un breve capitolo, il XLV, alla soddisfazione degli errori commessi nella preghiera. Se alla moderna sensibilità questa prescrizione potrà sembrare poco adatta, bisogna però sottolineare come la ratio non stia in una masochistica volontà di punizione fine a se stessa, quanto nel desiderio di procedere nella via di una progressiva santificazione, cercando di eliminare le cattive abitudini del monaco per elevarlo e purificarlo anche attraverso la pratica dell'umiltà. Questo avviene pure in quest'ambito: e, del resto, il santo nursino pare voler colpire in particolare la negligenza (“negligentia”, RB XLV, 2) e l'atteggiamento di coloro che non accettano subito di riparare l'errore commesso (RB XLV, 1-2).
Anche nel capitolo XLIII, di poco precedente, si stabilisce l'importanza della riparazione pubblica (“publica satisfactione”, RB XLIII, 6) per chi arriva tardi alla preghiera. Qui è davvero interessante evidenziare la gran cura delle anime che ispira san Benedetto. Nel monachesimo a lui precedente chi arrivava in ritardo alla preghiera ne veniva escluso: il santo Patriarca dei monaci d'Occidente stabilisce invece che i ritardatari possa prender parte alla preghiera, pur se all'ultimo posto e in vista degli altri fratelli, dando riparazione alla fine della preghiera corale. Questo perché, afferma san Benedetto, se essi restassero fuori dall'oratorio, potrebbero cominciare a chiacchierare o anche tornarsene a letto (nel caso dell'Ufficio notturno): è dunque meglio che entrino e preghino, così da non perdere del tutto la preghiera e potersi emendare per il futuro (RB XLIII, 4-9).
Un ulteriore breve spunto riguardo all'Opus Dei ci viene fornito dal capitolo XLVII, in cui viene stabilito che nel coro i monaci abbiano diverse funzioni e che non tutti pretendano di leggere e cantare, poiché si tratta di un compito importante, da svolgere “con umiltà, gravità e tremore” (“cum humilitate et gravitate et tremore”, RB XLVII, 4), poiché, come detto, la liturgia terrena è un riflesso di quella celeste e anche perché chi svolge certi compiti deve essere in grado di “chi ascolta sia edificato” (“ædificentur audientes”, RB 47, 3).
A questo punto penso sia interessante porsi una domanda: dove avveniva questa preghiera? La Regola parla esplicitamente dell'oratorio - “oratorium” (RB, LII, 1), destinato a null'altro se non alla preghiera, dove comportarsi con la massima riverenza e dove non si tiene solamente l'orazione liturgica, ma dove il monaco può liberamente attendere a quella personale, purché a bassa voce (sia per non distuRBare gli altri fratelli che per favorire l'intimità nel colloquio con il Signore) e “con lacrime e fervore del cuore” - “in lacrimis et intentione cordis” (RB, LII, 4). Qui il pianto vuole significare la contrizione per i propri peccati e la coscienza della propria miseria dinanzi all'amore misericordioso di Dio.
Infine, un accenno al silenzio. Da quanto detto sinora potrà forse apparire che il monastero che segua la regola san Benedetto, sia percorso da tante parole: eppure il capitolo VI smentisce quest'idea. Esso si intitola, significativamente, “Sul silenzio” (“De taciturnitate”). San Benedetto esorta con forza al silenzio, per custodire il raccoglimento interiore ed evitare di scadere in discorsi oziosi – se non cattivi. Ecco dunque una sorta di “contraltare” della preghiera corale: così come in quest'ultima non si risparmiano le parole, così fuori di essa le parole vanno serbate, quasi centellinate: in questo modo si può conservare il clima di orazione della preghiera corale e proseguirla, in un certo senso, anche fuori dall'oratorio, non staccandosi dal dialogo interiore con il Signore.