Alcuni numeri sull'aborto oggi
“La donna è sola”. E’ intitolata così un’inchiesta sull’aborto pubblicata su Test Salute di ottobre 2010, supplemento n° 88 della rivista “Altroconsumo”, testata che di certo non può essere tacciata di essere filo-ecclesiale o pro life.
Tra l’ottobre 2009 ed il marzo 2010 la rivista ha condotto un’indagine in tre paesi europei, Italia, Spagna e Portogallo, per conoscere le esperienze e le sensazioni delle donne che hanno praticato un’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). In Italia è stato distribuito un questionario in tutti gli ospedali e i consultori che hanno dato la disponibilità e le risposte raccolte sono state 200, provenienti da tutta la penisola e ad opera sia di donne italiane che straniere.
Andiamo dunque a leggere i risultati di tale indagine.
Dall’analisi emerge che il primo motivo di ricorso all’aborto è il mancato uso della contraccezione: il 35% delle donne, infatti, ha dichiarato di non aver usato metodi di controllo delle nascite nei tre mesi precedenti alla gravidanza. Un altro dato estremamente negativo emerso dalla ricerca è quello che il 20% delle donne ha ammesso di non essere al primo aborto. A commento di questi dati, “Test Salute” afferma che sarebbe previsto esplicitamente dalla Legge 194/78 che le strutture sanitarie offrissero un’adeguata informazione sulla contraccezione e sul controllo delle nascite, in modo tale da rimuovere “le cause che hanno portato all’aborto”. Tali superficiali affermazioni denotato una scarsa conoscenza della tanto celebrata Legge 194, la quale all’articolo 2 cita: “I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405 (2), fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;
b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;
c) attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza.
I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.
La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile e’ consentita anche ai minori”.
Ma torniamo all’articolo di Test Salute: “A quanto risulta dalle risposte, per le donne che vivono in Italia è stato molto facile ottenere informazioni sull’interruzione volontaria di gravidanza. Quasi tutte si rivolgono al proprio ginecologo o ai consultori, una su cinque chiede ad amici e conoscenti. Si ricorre poco al medico di famiglia” (p. 26). Anche in questo caso non si può fare a meno di notare come la ricerca sia parziale e sottolinei esclusivamente come le donne abbiano ricevuto informazioni circa l’aborto, e non consulenze o aiuti materiali in opposizione ad esso.
“La maggioranza delle donne decide di abortire entro la sesta settimana di gravidanza e ne parla per prima cosa con il proprio ginecologo. Quasi tutte dichiarano di essere state messe a propri agio dai medici e dai consulenti con cui hanno parlato durante il primo colloquio e quasi tutte hanno ricevuto spiegazioni e informazioni sulle procedure da seguire” (p. 27). Di nuovo: alle donne troppo spesso vengono fornite informazioni parziali, non rispettando in tal modo la legge che, non a caso, titola anche: “Norme per la tutela sociale della maternità”, oltre che “[…] e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
Dopo che le donne hanno ottenuto il certificato di aborto, è necessario che passino sette giorni prima di poter effettuare l’intervento. Questo tempo di attesa fa sì che il 45% delle donne abortisca dopo l’ottava settimana, e l’11% anche dopo la decima. Di certo c’è anche una percentuale di donne che abortisce dopo il limite massimo dei tre mesi, grazie ad una falsificazione della data del concepimento da parte di un ginecologo compiacente, ma questi sono dati che non si possono riportare.
“La durata dell’intervento in genere non supera i dieci minuti. E il tempo di ricovero è normalmente di un giorno solo. In Italia si esegue quasi sempre l’intervento in anestesia generale […]” (p. 27).
Dall’inchiesta di Test Salute emerge anche che molto spesso le donne affrontano l’intero iter senza parlarne con nessuno: una su quattro dichiara di non aver comunicato a nessun parente o amico la decisione presa, e spesso neanche al partner. La percentuale di donne che ammettono ciò aumenta con l’aumentare dell’età delle intervistate.
Un altro dato interessante è che il 15% delle donne ritiene che l’aborto sia stato molto doloroso dal punto di vista fisico, molto più di quanto si aspettasse. In quanto al dolore psicologico, però, l’inchiesta non si pronuncia: quasi non fosse neanche contemplato. L’unico dato a cui si accenna è che l’8% delle donne ha dichiarato di non sentirsi fisicamente o psicologicamente pronta ad essere dimessa, e che “qualche donna ritiene di non essere stata sufficientemente informata di quel che sarebbe successo nei giorni successivi all’intervento e di non aver avuto il necessario aiuto e le risposte che cercava quando ha telefonato al medico per capire meglio cosa stava capitando” (p.29).
Per concludere, riportiamo una frase molto significativa: “[…] dalle risposte che abbiamo ricevuto nei paesi in cui la RU486 è in uso da più tempo non risulta che l’aborto farmacologico sia un’esperienza meno pesante. Al contrario, dal punto di vista del dolore fisico può essere assai peggiore (gli effetti indesiderati pi frequenti sono mal di pancia, nausea, sanguinamento)” (p. 25). Inutile evidenziare come anche in questo caso l’affermazione di Test Salute risulti essere incompleta, ma è già qualcosa che almeno in parte ammetta che la “Kill Pill” non è poi una grande conquista.
I dati emersi da questa recente inchiesta sono certamente importanti e mettono in luce una situazione che deve spingere tutti alla riflessione; in primo luogo, infatti, sarebbe necessario dare maggior supporto alle donne che si trovano in difficoltà, di qualunque tipo essa sia.
Quel che è certo, però, è che se i risultati che si delineano dalle varie indagini vengono usati in maniera parziale ed analizzati secondo un determinato preconcetto ideologico, anche l’oggettività dei numeri può essere, purtroppo, fuorviata.
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