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Tra i linguisti si sta svolgendo una nuova querelle: l’italiano di oggi, quello degli SMS e delle chat, va accettato, oppure no?
Per i puristi tale linguaggio stilizzato va assolutamente contrastato; per i modernisti, invece, è giusto non porre freno al progresso: una lingua viva, in quanto tale, è naturalmente destinata a mutare e ad evolversi nel tempo.
Ma la ragione dove sta? Una risposta corretta precostituita non c’è, l’unica cosa certa è che la verità non sta in nessuno dei due estremi; infatti, è possibile ravvisare del giusto in entrambe le posizioni.
“Dtt qsr xò nn hai dato 1 risp a nex.K cs sign che ttt e 2 hanno 1 po’ di ragione?”.
I due cambiamenti più evidenti e generalizzati sono quelli dell’uso di abbreviazioni e della scomparsa di alcuni simboli interpuntivi.
Nel primo caso, il fatto di usare delle abbreviazioni non deve spaventare i puristi: è una cosa che si è sempre fatta: sia nel prendere appunti, che nello scrivere lettere, che nell’usare il telegrafo con il suo Codice Morse, dove “TU” stava per “Thank You”, “88” significava “Love and kisses”, eccetera…
Però, d’altro canto, un conto è usare delle abbreviazioni in rare situazioni di bisogno, un altro è modificare il sistema di scrittura in tutti i contesti. Infatti, è sempre più frequente trovare alunni delle scuole medie e superiori che nei temi in classe di italiano scrivono “ke” al posto del classico “che”, oppure “cmq” per “comunque”.
Quello che sta accadendo oggi, quindi, è molto di più di un’utilizzazione massiccia di un sistema codificato di abbreviazione: si sta perdendo la coscienza della differenza che intercorre tra quello che è l’italiano corretto e quello che altro non è che un modo di scrivere che dovrebbe rimanere occasionale.
A tal proposito, quindi, hanno ragione i puristi nell’allarmarsi.
L’altro cambiamento eclatante ravvisabile nell’italiano moderno è quello dell’uso della punteggiatura.
I due punti e il punto e virgola sono dei perfetti sconosciuti per la maggioranza della popolazione (anche laureata), e questo ha come diretta conseguenza il fatto che le frasi di ogni tipo di testo sono sempre più brevi. Se un tempo alle elementari le maestre insegnavano a non fare frasi più lunghe di tre righe, ora devono battersi affinché i loro alunni non mettano un punto ogni tre parole: soggetto, verbo, oggetto. Punto.
Questo nuovo modo di scrivere è indotto dal fatto che, nella società liquida di oggi, tutto è una corsa contro il tempo. Scrivere un articolo o un libro utilizzando frasi troppo lunghe è controproducente: si rischia di essere fraintesi, o di non essere letti affatto. Basta dare una scorsa ai romanzi che oggi vendono milioni di copie per notare come siano tutti scritti con frasi brevi e semplici: il tempo delle subordinate di primo, secondo, e terzo grado è ormai passato.
I puristi domandano: “è giusto sacrificare l’eleganza dello stile in nome della velocità e della praticità? Non bisognerebbe conservare almeno un minimo di velleità estetica?”.
All’opposto i modernisti interrogano: “perché dovremmo continuare a scrivere utilizzando le subordinate se questo ci condanna a non essere capiti e ad essere considerati degli scrittori di nicchia?”.
Tirando le fila: è giusto che una lingua si evolva e muti nel corso del tempo, adattandosi alle esigenze tipiche della sua epoca, ma solo a patto che ciò non avvenga in maniera acritica.
Nello specifico, è corretto adattarsi alle esigenze moderne utilizzando le varie forme di abbreviazione solamente a condizione che ciò rimanga un’eccezione confinata entro determinati contesti. Nello stesso tempo, è lecito fare frasi più brevi per assecondare i propri lettori, però non si può negare che se Manunzio inventò il punto e virgola − ed esso fu utilizzato per secoli − significa che una validità deve pur averla!