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Il sacramento della riconciliazione
Di Claudio Dalla Costa - 24/10/2010 - Religione - 2244 visite - 0 commenti

Il sacramento della confessione, o riconciliazione, oggi è fortemente in crisi perché, come insegnava papa Pio XII, “il più grande peccato dei tempi moderni e di non credere più nel peccato”.

Dov’è finito il peccato? Si è perso il senso del peccato perché si è affievolito il senso di Dio. Si sente dire che confessarsi non è di moda, confessarsi da un uomo sembra ormai cosa inaudita, salvo andare poi in certe trasmissioni a chiedere perdono, davanti a una telecamera, con milioni di spettatori, quando si è offeso qualcuno. Ma poi a che prò dover chiedere perdono? Non si è mica ammazzato nessuno! Ci riteniamo tutti innocenti, o, per meglio dire, abbiamo uno specchio che rimpicciolisce i nostri peccati e che ingrandisce quelli del prossimo. Sarebbe tutto più facile se, anziché dover confessare i nostri errori, potessimo confessare quelli degli altri, sapremmo certamente trovarne di tutti i tipi e qualità.

Già S. Francesco di Sales diceva: “È cosa naturale cercare di nascondere i propri difetti: ma, se è così, perché godere allora che siano manifestati i difetti altrui?”. Tanta gente dice di intendersela direttamente con Dio senza aver necessità di passare attraverso la mediazione di un uomo, ignorando che il Signore vuole salvarci attraverso la mediazione umana. Non facciamo come il tizio che, trovandosi in punto di morte, rifiutò di vedere il sacerdote che attendeva in anticamera, dicendo: “Quanto alla mia coscienza, me la intendo direttamente con Dio”.

Bisogna vedere se anche Dio voleva intendersela direttamente con lui. È un dato di fatto che più si vive lontano da Dio e meno si sente il desiderio di chiedere perdono; quante volte sentiamo la gente che dice: “che male c’è?”, “non ho fatto niente di cui accusarmi” e l’elenco delle giustificazioni potrebbe continuare. Viceversa, se si è vicini a Dio, e in questo caso l’esempio dei santi è sotto gli occhi di tutti, si sente il bisogno di purificarsi continuamente perché ci si sente schiacciati dalle nostre miserie che in qualche modo ci allontanano dal Signore. D’altra parte “bisogna essere molto vicini a Dio per misurare la distanza che ci separa da Lui” (Léon-Joseph Suenens).

Chesterton si chiedeva: “Chi è un santo? Un uomo che sa di essere peccatore”. Sminuire il senso del peccato vuol anche dire annullare in un certo modo il sacrificio di Cristo sulla croce. Senza dubbio quando prendiamo coscienza di essere peccatori siamo già sulla buona strada. Ricordiamoci, però, che i sensi di colpa sono altra cosa rispetto al senso del peccato. I santi comprendono che peccando si ferisce il Sommo Bene e non si lascia trasparire la sua vita nella nostra.

Sant’Agostino diceva: “Per lodare Dio, ti accusi: in effetti, la sua grandezza sta nel rimettere i tuoi peccati. Confessare i tuoi peccati fa parte della lode di Dio. Per quale motivo? Perché tanto più ci si felicita con il medico quanto più si era disperato del malato”.

Che ridicoli questi cattolici, sempre con queste storie oscurantiste da Medio Evo, non ci siamo liberati una volta per tutte da questi tabù clericali noi adulti moderni? Non sarà che, per caso, ci dà fastidio fare ogni tanto l’esame di coscienza per interrogarci sui nostri rapporti con Dio (se ci si crede naturalmente), e con il nostro prossimo? Noi moderni passiamo per persone aperte in campo sociale e morale, disponibili a interessarci ai problemi legati alla globalizzazione, allo sfruttamento dei minori, alle problematiche degli handicappati, dei lavoratori, degli extracomunitari e, perbacco, come si fa a pensare che personaggi di tale spessore incappino in quella vecchia invenzione chiamata peccato?

Tutti disponibili come siamo, almeno a parole, a batterci per i diritti dell’uomo, per una migliore qualità della vita, e tolleranti davanti a ogni liberazione sessuale e sociale, chi oserebbe mettere in dubbio che siffatti individui si debbano confrontare con il senso del peccato? La realtà la conosciamo tutti e, naturalmente, è ben diversa da quella che si vorrebbe far credere. Per cui, se un male aggredisce il nostro organismo andiamo dal dottore, e cerchiamo di curarci, lo stesso discorso vale per la vita spirituale: quando è malata dobbiamo fare il possibile per curarla. Il sacramento della penitenza è la clinica delle anime.

Siamo allergici alla parola peccato. Bisogna dire che anche nelle nostre chiese se ne sente parlare sempre di meno. Forse per non urtare i pochi fedeli che ancora le frequentano o, forse, perché se ne è parlato così tanto in passato e adesso non si ha più il coraggio di dire qualcosa sull’argomento. Eppure il peccato è una certezza acquisita; le nostre miserie sono all’ordine del giorno. Dobbiamo dire, piuttosto, che non ci piace riconoscere che la nostra vita è intessuta di colpe, errori e comportamenti più o meno gravi.

L’allergia al confessionale

Diciamo spesso “Santa Maria prega per noi”, “Padre rimetti i nostri debiti”, “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo” ma da qui a confessarsi la strada non è così breve. Siamo tutti un po’ infastiditi dalla confessione, e tanto più dalla confessione frequente. Ci capita come quel tale che, dopo aver dormito in un’osteria, aveva chiesto al mattino, al suo domestico gli stivali, e se li era visti portare ancora coperti di polvere. “Come mai non gli avete puliti?” aveva chiesto. “Ho pensato che era inutile – aveva risposto il domestico – tanto dopo pochi chilometri di viaggio, si impolverano di nuovo!”. “Giusto, ma ora va a preparare i cavalli per la partenza”. Poco dopo i cavalli scalpitavano fuori dalla scuderia e il padrone era in pieno assetto da viaggio. “Ma non possiamo partire senza colazione” osservò il servo. “È inutile – rispose il padrone - tanto, dopo pochi chilometri di viaggio, avresti fame di nuovo!”

Il mestiere di Dio

Dio ci fa toccare con mano, attraverso il prete, che la riconciliazione è raggiunta. È un atto di umiltà e di verità accostarci al Signore attraverso la confessione. Papa Luciani ha detto: “Davanti alla nostra miseria finita, Dio ci viene in soccorso con la Sua misericordia infinita”. Quando Heinrich Heine, poeta tedesco di origine ebraica, stava per morire, sua moglie gli suggeriva pensieri religiosi: “Oh, Enrico mio, il Signore ti perdonerà tutto!” e il poeta rispose: “Stai tranquilla cara, certamente Dio avrà misericordia di me; il suo mestiere è quello del perdono”. Charles Sant-Foi, uno scrittore dell’ottocento, definì il sacramento della riconciliazione: “Un’amicizia, elevata a sacramento, fra creatura e Creatore”.

 Il peccato non è solo un atto contro Dio, il disordine causato dai suoi effetti si ripercuote a livello della comunità umana. “Un’anima che si innalza, innalza il mondo” (Elisabeth Leseur), la stessa cosa è vera al contrario, per cui ogni anima che si degrada nuoce alla comunione dei santi per questa misteriosa solidarietà che esiste tra tutte le membra della famiglia umana. Nel sacramento della riconciliazione, attraverso la mediazione del sacerdote, veniamo riconciliati con Dio e con tutta la comunità precedentemente ferita dal nostro peccato.

San Leopoldo Mandiæ

La storia della Chiesa è ricca di tanti santi confessori: pensiamo al curato d’Ars, S. Giovanni Bosco, padre Pio da Pietrelcina, padre Felice Cappello. Vorrei, qui, tratteggiare brevemente alcuni aspetti di colui che viene anche indicato come il confessore della misericordia: S. Leopoldo Mandiæ. Nato in Dalmazia nel 1866, morì a Padova nel 1942, e per quasi tutta la vita esercitò il suo ministero di confessore a Padova. Frate cappuccino, incarnava la bontà e la tenerezza di Dio, i fedeli accorrevano da tutta Italia per confessarsi da lui. Era piccolo di statura (m. 1,38), balbuziente, non ci ha lasciato nessuna predica, era capace di rimanere nella celletta confessionale dalle 12 alle 15 ore al giorno e tutto questo per 40 anni. Sono famose alcune sue frasi che meritano di essere ricordate: “La misericordia di Dio è superiore ad ogni aspettativa”, “Dio preferisce il difetto che porta all’umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa”.

Criticato perché troppo sbrigativo, buono e largo di manica nell’assolvere, rispondeva: “Ci ha dato l’esempio Gesù, non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?”.

Le confessioni di solito erano corte e raccomandava ai preti: “Nel confessionale non dobbiamo dare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alle capacità delle singole anime. Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della salvezza e santificazione”.

Era magnanimo anche nelle penitenze, ordinariamente dava da recitare tre gloria al Padre e tre ave Maria, salvo poi passare lui tante notti in preghiera per ricordare al Signore coloro che si erano confessati nella giornata. Ad un prete, che voleva far mettere il cilicio ad una ragazza sua penitente, rispose: “Lei padre lo usa il cilicio?”. Questi rispose di no ed egli ribattendo: “E allora? Caro padre, abituiamo i penitenti ad ubbidire ai comandamenti di Dio e al loro dovere. Ce n’è abbastanza, ce n’è abbastanza! E i grilli via!”.

Certamente, un certo aspetto della crisi del sacramento della penitenza è dovuto alla fatica di incontrare preti accoglienti, calorosi, capaci di orientare il fedele a superare la fredda ripetizione dei peccati, per far risaltare la conversione e la gioia del ritorno tra le braccia del Padre misericordioso. Tutto, infatti, ruota intorno alla misericordia di Dio. È importante capire che non deve essere per prima cosa la paura per la nostra salvezza a farci accostare a questo sacramento, ma il dolore per aver ferito Qualcuno che ci ama in modo infinito e sempre ci attende al di là di ogni nostra speranza e aspettativa.

Il veleno nella scodella della madre

Sentiamo questo episodio accaduto a San Luigi Orione, dopo essere diventato prete da pochi mesi. “Da Tortona venni mandato a Castelnuovo Scrivia, circa otto chilometri di strada, per predicare la novena dell’Immacolata. Avevo parlato, quella sera, della confessione a una chiesa gremita di gente e non so perché ma sta di fatto che a un certo punto uscii con questa espressione: “Se anche qualcuno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre e l’avesse così fatta morire, se è veramente pentito e se ne confessa, Dio, nella sua infinita misericordia, è disposto a perdonargli il suo peccato”.

Finita la predica incomincio le confessioni e tutti volevano confessarsi da me perché avevo la manica larga e poi perché tanti amano confessarsi da un forestiero perché al loro parroco che li conosce non vanno a dire certi peccati. Finito di confessare, verso mezzanotte, sotto la neve, torno a Tortona a piedi. Fuori dal paese c’era un uomo con il mantello che mi aspettava, ero sorpreso, anche impaurito, decido di superarlo e salutarlo. Lui mi ferma e mi chiede se sono io il predicatore di questa sera e se credo davvero a quello che ho detto specialmente in riferimento al veleno nella scodella della madre. Rispondo di sì, anche se non ricordavo di aver detto quelle parole; il tale mi disse: “Sono quell’uomo che ha messo il veleno nella scodella di mia madre tanti anni fa perché c’era discordia tra lei e mia moglie”.

Da allora non aveva più avuto pace ed era ormai anziano, si confessò e si gettò piangente al mio collo. Anch’io piansi e lo baciai in fronte e le nostre lacrime si confondevano. “Poi mi accompagnò quasi fino a Tortona e poi sparì tra le cascine; non avevo mai provato una gioia così grande nella mia vita e ripetevo quanto è grande la misericordia di Dio”. Davanti a don Orione quest’uomo ha trovato una fiducia che lo ha restituito a se stesso, la sua vita può finalmente ricominciare, nuovi orizzonti si schiudono davanti a sé. Tutti e due adesso sono in grado di proclamare le meraviglie di Dio “perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc. 15,32).

 
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