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di Assuntina Morresi
Ginevra, 17 settembre 2001. Tutto comincia ufficialmente lì, quasi dieci anni fa, in un autorevole consesso internazionale, quando esperti ed operatori del settore esaminano pubblicamente per la prima volta la possibilità e l’opportunità di introdurre tecniche di fecondazione assistita nei paesi in via di sviluppo: neppure una settimana dopo l’attentato alle torri gemelle a New York, al quartiere centrale dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), prende il via un importante meeting di cinque giorni, "Medical, Ethical and Social Aspects of Assisted Reproduction" (aspetti medici, etici e sociali della Riproduzione Assistita).
I contributi sono tanti. Ma particolarmente significativo è quello di A.S. Daar e Z. Merali, dal titolo: "Infertility and social suffering: the case of ART in developing countries". Appare subito una sorta di "manifesto" sul tema. Si spiega innanzitutto come quello dell’infertilità sia un problema più pesante nei paesi terzi, rispetto a quelli sviluppati. Potrà apparire sorprendente, perché è l’Occidente a "vantare" il tasso di nascite più basso. Eppure le stime parlano dell’Africa come della regione con uno dei maggiori tassi di infertilità del mondo, specialmente di quella secondaria (l’impossibilità di avere altri figli dopo il primo), mentre il primato dell’infertilità primaria (cioè l’impossibilità di concepire) spetta all’Asia. Gli autori si dilungano ampiamente sullo stigma dell’infertilità, sottolineandone le tragiche conseguenze, a partire dalle donne, con descrizioni terrificanti: dall’isolamento sociale fino all’istigazione al suicidio e anche all’omicidio. «L’infertilità ha la potenzialità di distruggere la pace, esacerbare la povertà e devastare le comunità»: un grido di dolore, con toni tanto accorati quanto poco credibili, visti i trascorsi decenni di allarmi per la sovrappopolazione del pianeta, e considerate le politiche antinataliste, promosse anche dall’Oms, nelle stesse zone del pianeta che le medesime agenzie internazionali scoprono improvvisamente minacciate dalla sterilità (ad esempio in India o in Bangladesh).
E siccome deve essere abbastanza imbarazzante anche per l’Oms ignorare mezzo secolo di queste politiche, ecco qua – excusatio non petita – la giustificazione per la diffusione della fecondazione in vitro: «Se le persone infertili non hanno accesso alle tecniche di riproduzione assistita poiché in questo modo potrebbero "contribuire" alla sovrappopolazione, perché allora salvare delle vite nei paesi in via di sviluppo usando tecnologie mediche, visto che anche questo potrebbe avere un "effetto sovrappopolazione"? Se si pensa che sia giustificato impiegare tecnologie mediche per prevenire la sofferenza, perché non lo è usare tecnologie mediche per alleviare la sofferenza di essere infertili?».
Per superare le difficoltà economiche, considerati gli investimenti necessari per avviare questo tipo di attività, si suggeriscono collaborazioni fra pubblico e privato: oltre a segnalare l’esempio positivo delle cliniche di fecondazione assistita in India, si ribadisce il vantaggio della competitività dei costi nei paesi in via di sviluppo, dovuta alla «inventiva nelle condizioni avverse, al maggior numero di ore lavorative, al minor costo del lavoro». Insomma, secondo gli esperti consultati dall’Oms i poveri sanno aguzzare l’ingegno, lavorano di più e non pretendono salari stratosferici, e quindi ci sono tutte le condizioni per investire in questo promettente settore.
Toni ed argomentazioni appaiono decisamente surreali, ma pecunia non olet: il dibattito è aperto e partono le prime iniziative. Vayena e collaboratori, in un articolo del 2002, pubblicato nella rivista specializzata "Fertility and Sterility", danno notizia di «gruppi di consumatori» sorti in Kenya e in Bangladesh per aumentare la consapevolezza sul problema dell’infertilità e sui possibili trattamenti, chiaramente di fecondazione in vitro. L’idea di gruppi di «consumatori» di fecondazione assistita in Bangladesh è francamente poco convincente, e a tutt’oggi non sembra aver suscitato grandi entusiasmi, a cominciare dalla popolazione locale.
Nell’agosto del 2006 la rivista Nature dedica un lungo articolo all’argomento: nell’Africa sub sahariana operano più di venticinque cliniche private che offrono servizi di IVF. Il primo bambino è nato a Lagos, in Nigeria, nel 1989: ma un trattamento costa circa 2500 dollari, un prezzo troppo elevato anche per le classi sociali a reddito medio. Per abbassare i prezzi si cercano nuovi protocolli con materiali e procedure diverse e meno onerose economicamente di quelle adoperate in occidente, che però richiedono nuove sperimentazioni, e comunque sono meno efficaci. Per diffondere le ART nei paesi terzi bisogna ridurre il costo di un trattamento a qualche centinaio di dollari - si parla di 200 - rispetto ad alla cifra media per un trattamento standard nei paesi sviluppati, che può superare i diecimila.
Per esempio i costosissimi ormoni possono essere sostituiti con sostanze più accessibili, come il citrato di clomifene. I costi si abbattono da 300-450 dollari a circa un dollaro, ma si produce anche un numero minore di ovociti, con la conseguenza di avere un tasso di successo inferiore rispetto agli standard occidentali.
Si propongono soluzioni che lasciano – per usare un eufemismo – perplessi: Hovatta e Cooke, ad esempio, in una loro pubblicazione del 2006 sull’"International Journal of Gynecology and Obstetrics", suggeriscono, fra l’altro, come evitare l’acquisto di un incubatore per lo sviluppo degli embrioni. Gli ovociti prelevati, insieme al liquido seminale, si possono mettere in una "capsula" appositamente predisposta, ben chiusa ed inserita nella vagina della donna, «con la raccomandazione di spingerla dentro immediatamente se rischia di cadere fuori». Dopo 24 ore gli eventuali zigoti formati potrebbero essere trasferiti in utero. In alternativa, altri operatori del settore ripescano una procedura seguita per anni in veterinaria, quella con l’incubatore "sottomarino": come già fatto con gli embrioni di mucca, anche quelli umani potrebbero essere lasciati in coltura dentro una busta di plastica sigillata, immersa in acqua calda.
Sono percorsi chiaramente improponibili nei nostri paesi, ma questo è il paradosso a cui si arriva: in nome dell’equità di accesso ai trattamenti sanitari, pur di offrire anche alle coppie infertili dei paesi in via di sviluppo le nuove tecnologie a disposizione per i ricchi occidentali, si propone di fatto una profonda disparità dei trattamenti. Il problema dell’infertilità resta, così come quello della grave insufficienza dei servizi di assistenza sanitaria. E la diseguaglianza aumenta, in nome di quello che potremmo chiamare un "colonialismo procreativo" che porta molti più problemi rispetto alle rare situazioni personali che riesce a risolvere.