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Testimonianza di una prigioniera di coscienza lituana
Di Giulia Tanel - 18/09/2010 - Storia del Novecento - 1581 visite - 0 commenti

“Chi riuscirà mai a contare i milioni di detenuti i quali, totalmente disumanizzati, conducono dietro il filo spinato una vita veramente d’inferno, fatta solo della più spaventosa amoralità, di crudeltà e di odio” (Nijole Sadunaite, Un sorriso dal Lager, Roma, Aiuto alla chiesa che soffre, p. 112).
Scriveva così la lituana Nijole Sadunaite, condannata nel 1975 a tre anni di lager a regime duro ed a tre anni di esilio in Siberia per aver difeso con decisione la libertà di religione e i diritti dell’uomo, che in Lituania erano brutalmente calpestati. (nella foto: la collina delle croci, in Lituania)
In maniera molto fortunosa sono giunte fino a noi delle sue memorie di quei terribili anni in balia del governo comunista. Ma la sua non è un’isolata storia del passato: ancora oggi ci sono moltissimi prigionieri di coscienza, solo che troppo spesso le loro storie rimangono sepolte nel buio di una prigione. Riuscire a far trapelare informazioni è una rarità.

Dal punto di vista biografico, di Nijole Sadunaite si sa pochissimo, ma le sue pagine di memorie compensano largamente tale mancanza. Infatti, dall’agile libretto “Un sorriso dal lager” emerge prepotente la solidità di questa esile donna lituana, profondamente radicata nella religione cattolica. Lei, che per colpa della sua devozione religiosa venne condannata, proprio grazie alla fede riuscì a salvarsi. Infatti, dopo cinque mesi di interrogatori, Nijole si sente rivolgere queste parole: “<< Vedi, - proseguì il cekista -, io lavoro qui da oltre vent'anni. In tutto questo tempo ho visto uomini-quercia di ogni genere... Per qualche settimana essi riuscivano a mantenere un dato atteggiamento, ma dopo tutti abbassavano il naso... E tu, nella tua situazione, ancora vai gironzolando sorridente dal mattino alla sera. Non ci erano mai capitati casi del genere >>” (op. cit. p. 38).
Che Nijole Sadunaite fosse una persona particolare, lo si era già capito dalla sua decisione di rinunciare all’assistenza di un avvocato difensore (per evitare di mettere in pericolo le persone che glielo avrebbero procurato), e dalla coraggiosa affermazione secondo cui: “[…] la verità non ha bisogno di avvocati difensori, poiché essa è onnipotente e invincibile! Soltanto l’inganno e la menzogna, essendo impotenti di fronte alla verità, hanno bisogno di armi, di soldati e di prigioni per prolungare il loro infame dominio e, comunque, anche questo solo temporaneamente…” (op. cit. p. 10).

Dopo dieci mesi di infruttuosi interrogatori nel carcere del Kgb, Nijole venne trasferita nel lager della Mordovia. Giunta qui dopo un estenuante viaggio di un mese stipata con altri prigionieri su un treno, Nijole aveva il dovere – come le altre sue compagne prigioniere – di confezionare 60 paia di guanti da lavoro al giorno: se non raggiungevano tale numero venivano imprigionate. Per ovviare a questo le donne erano costrette a lavorare fino alle quattordici ore al giorno, concedendosi solo delle piccole pause per mangiare e per pregare. Sì, perché in mezzo a tale orrore, la preghiera è l’unica cosa che consente di evitare il degrado. Nijole, infatti, era detenuta insieme a delle pravoslave, che avevano l’abitudine di cantare sommessamente durante il lavoro. “Una volta imparati i loro canti, presi anch’io ad unirmi a loro. In quei momenti mi sembrava di trovarmi in un santuario, tanta era la serenità e il benessere che provavo nell’animo. Non a caso si dice che la preghiera in comune arriva dal cielo. Ma pregare in gruppo è vietato nel lager e, sovente, ci costringevano a smettere, ma noi, dopo un po’, ci raccoglievamo nuovamente ad onorare e ringraziare Dio per il Suo amore verso noi peccatrici. La preghiera in comune è senz’altro il momento più luminoso e felice della vita nel lager” (op. cit. p. 77).
Lager, quelli comunisti, sotto molto aspetti simili a quelli fascisti. Anche se, sempre secondo Nijole, il comunismo si era rivelato essere ancora peggiore del fascismo, infatti: “i fascisti hanno svolto un’opera decisamente criminale, ma almeno non lo nascondevano! Essi dicevano apertamente che avrebbero annientato, chi avrebbero soggiogato e tutti lo sapevano. Voi [si sta rivolgendo ad un cekista, ndr] commettete gli stessi crimini, tentando però di mascherarvi da ‘liberatori’, da ‘fratelli’, mentre dietro la schiena nascondete lo stesso coltello insanguinato…” (op. cit. p. 43). Perché la morale comunista altro non è che: “maledire tutto ciò che vi è di nobile e di sacro e solo nei rapporti internazionali indossare una maschera di ipocrita civiltà” (op. cit. p. 51).

Al termine dei tre anni di detenzione nel lager, prima di essere trasferita in Siberia, Nijole Sadunaite fu sottoposta alla “rieducazione”, svolta da una docente di marxismo-leninismo di una scuola superiore, la quale aveva il compito di convincerla dell’erroneità delle sue posizioni cattoliche. Naturalmente fu un buco nell’acqua. “La docente, una donna pressappoco della mia stessa età, rimase assai meravigliata nel vedermi così: non si attendeva di fronte una persona così di buon umore e disponibile. Cominciammo a parlare e ben presto mi resi conto che essa non aveva benché minima cognizione della religione, al che le dissi: <<Come si può negare e combattere ciò che non si conosce?>>. Essa ammise subito senza difficoltà di essere digiuna in materia di religione e di non aver nemmeno mai letto il Vangelo. Mostrò interesse per le mie spiegazioni riguardo la potenza della preghiera e la misericordia di Dio verso gli uomini, dopo di che, commentò pensosa: << Io non riesco a credere che una persona possa essere punita per la pratica della religione >>” (op. cit. p. 100).

In seguito Nijole fu esiliata a Boguèani fino al 7 luglio 1980, data della liberazione.

Dopo questi sei anni di stenti, la salute della Sadunaite era compromessa: aveva una febbre costante attorno ai 37,7°. Ma lo spirito combattivo era rimasto quello delle origini. Infatti, nonostante il divieto, Nijole cominciò a raccontare a tutti la sua storia e scrisse le preziose memorie che sono giunte fino a noi. Pagine, queste, che terminano così: “Le sofferenze per Cristo costituiscono un segno di speciale predilezione. Desidero concludere questi miei ricordi con l’inno di ringraziamento: << Noi Ti lodiamo, Dio, / Ti proclamiamo Signore. / O eterno Padre, tutta la terra Ti adora. // A Te cantano gli angeli / e tutte le potenze dei cieli: / Santo, Santo, Santo / il Signore Dio dell'universo >>” (op. cit. p. 140).

 
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