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Sorelle e madri
Di Francesco Agnoli - 12/08/2010 - Storia - 2284 visite - 0 commenti

Sono reduce dalle vacanze al mare, che passo, da alcuni anni, a Pinarella di Cervia, presso le Piccole Suore di santa Teresa del Bambin Gesù, di Imola.

Vado lì perché c’è un ambiente semplice, familiare, ed accogliente. Oltre alle suore, molto attente e premurose, ci sono altre famiglie, spesso numerose, con tanti bambini, e qualche ragazza madre, che cerca un posto tranquillo, sereno e a buon prezzo. Quest’anno ho conosciute tre nuove sorelle, una più forte dell’altra. La prima: suor Maria Giovanna, è sarda e lavora in un asilo del suo paese. E’ piccola, un po’ anziana, ma ancora forte e vivace. La osservavo mentre giocava coi bambini. Non ha figli suoi; non ha una famiglia sua. Eppure ogni bambino che incontra, lo solleva, lo abbraccia, lo coccola con tenerezza. Quelli che non camminano ancora, li accompagna pazientemente, tenendoli per le manine, curva, senza stancarsi. C’è nel suo sguardo e nel suo modo di fare una profonda letizia cristiana, che mi dice cosa significhi essere madri, senza aver mai concepito nella carne. Osservandola penso che guarda ai miei figli con più gioia di come, talora, li guardo io: eppure non sono suoi. Eppure, vivendo in un asilo, ne vede e ne conosce centinaia.

L’altra suora si chiama Mary Kanyua, ed è un’ostetrica nera. E’ in Italia per poco: accompagna una ragazza della sua terra che deve curarsi in un ospedale italiano. Ha conosciuto le Piccole Suore sin da piccola, perché si erano insediate a Kiirua, in Kenya, nel 1967. Mi racconta che le suore, per lo più italiane, curavano i poveri, insegnavano alle donne a cucire e a fare disegni con la stoffa, e si dedicavano ai bambini orfani e agli ammalati. “Gli ospedali, come pure le scuole, mi racconta, sono nati con i missionari, soprattutto, e con la colonizzazione europea; noi gestiamo un ospedale, con 120 posti letto; un dispensario - in cui visitiamo gli ammalati che vengono, facciamo le analisi e seguiamo le mamme incinte, senza ricovero-, e una clinica mobile: partiamo la mattina, andiamo dalla gente, che altrimenti non avrebbe possibilità di curarsi, e torniamo la sera. Abbiamo anche una scuola materna in cui raccogliamo bambini dai 2 ai 4 anni: ci prendiamo cura di quelli malnutriti e diamo la possibilità alle donne, tenendoli, di andare in cerca di cibo”.

Avendo visto il film della regista nera Idrissa Oudraogo, “Yaaba” (1989), incentrato sulla paura degli spiriti e degli stregoni, nell’Africa di oggi, chiedo a suor Mary cosa mi dice della relazione malattia-superstizione. “Piano piano la superstizione sta calando, soprattutto grazie al diffondersi di idee di origine cristiana, ma è ancora molto forte. Talora, se c’è un bambino malato, i genitori vanno dallo stregone che chiede loro una capra, o altro, in cambio della guarigione del figlio. Ma a volte accade che la gente si ribelli, e ammazzi gli stregoni, anche bruciandoli vivi. Anche perché costoro spesso mettono odio tra le persone: il motivo del tuo male, dicono, è una maledizione di tua suocera, di un tuo vicino…”.

Infine chiedo a suor Mary cosa mi dice dell’aids: “Voi cosa fate per arginare questo terribile morbo? Cosa mi dice dell’uso del preservativo?”. “Abbiamo anche una casa per bambine malate di aids: le prendiamo quando c’è la mamma malata che non riesce a seguirle, oppure quelle che hanno perso i genitori, e nessun parente le vuole più. L’aids, da noi, si diffonde spesso a causa di adulti che vanno con bambine, anche molto piccole, pensando che loro non sono malate. Così succede che gli adulti infettano le bambine. Inoltre accogliamo molte bambine abusate. In Africa l’aids è chiamato anche ‘malattia dell’invidia’: se un uomo è malato non vuole morire solo lui, e sovente infetta gli altri. Addirittura succede che alcuni, sapendo di dover presto morire, vendono tutte le loro proprietà, poi spendono i soldi andando a prostitute, anche piccole, e le infettano. A tutto ciò si aggiunge il problema della poligamia… La lotta all’aids è dunque una questione culturale, di educazione…non si può certo pensare di risolverla coi preservativi”.

L’ultima suora cui vorrei accennare è suor Gabriella. Anche lei ha scelto di seguire Cristo nella vita religiosa. Vive ormai da 17 anni a Nogales, in Messico, al confine con gli Usa. Dove si dedica ai bambini. Vive in una casa famiglia, per piccoli abbandonati. Da chi? “Dalle mamme drogate, o che si prostituiscono, o che sono state lasciate dai mariti”, mi risponde. E io penso alla saggezza della morale sessuale cristiana, che da molti viene definita “sessuofobica”, e che è invece l’unica salvezza per le persone, e soprattutto per i bambini, perché non rimangano vittima degli errori degli adulti. “E poi ci sono le famiglie che salgono dal sud del Messico per rincorrere il sogno americano. Sul confine però trovano la polizia che le ferma: ma spesso costoro, per scappare, abbandonano i figli nel deserto dell’Arizona. Allora la polizia li prende e li porta da noi. Accogliamo anche bambini abusati, ad esempio dagli amanti o dai patrigni; bambini che vengono adoperati per portare droga al di là del confine con gli Usa; bambini che a 4 o 5 anni, avendo già compito dei crimini, non possono finire in galera… Cerchiamo di farli crescere, di curarli, e di farli adottare”.

Mentre parla mi mostra le fotografie, e mi parla di Tizio e di Caio, con emozione e con gioia. Penso al canto composto dai fondatori dell’ordine: “ Siam le Piccole Suore,/siam mamme,/d’ogni bimbo/ che mamma non ha”. Il Foglio, 12/8/2010

 
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