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Vi è un’analogia tra la figura del padre e quella del sacerdote (come tra madre e suora). Il padre di famiglia, sposandosi, rinuncia ad essere totalmente suo.
Diviene della moglie, che si è scelto (almeno in parte), e dei figli, anch’essi solitamente voluti, cercati, ma creature che non saranno del tutto sue, perché libere ed uniche. Il sacerdote fa qualcosa di simile, ma in misura maggiore: sceglie di rinunciare totalmente a se stesso.
Non sceglierà i suoi superiori, né i suoi fedeli, né la sua dimora: tutto è lasciato alla Provvidenza, in una fiducia e in un abbandono totali. Il padre di famiglia porta su di sè alcuni pesi, alcune responsabilità. Sposandosi si lascia sempre qualcosa. Perché la vita familiare non va d'accordo con un "po'di tempo solo per me", con le "mie cose" e i "miei impegni", con la carriera ad ogni costo, con i viaggi e tante altre cosette che si possono fare quando si è scapoli…
Un padre deve donarsi alla sua famiglia ed alle sue esigenze. Una bellissima canzone per bimbi, “Mi scappa la pipì, papà”, potrebbe essere il suo manifesto: ricorda che il suo è un servizio, ai bisogni continui e imprevedibili dei figli. Il matrimonio cristiano è quindi anche sacrificio, per qualcosa di più grande; è obbedienza: alle circostanze, a quello che il coniuge o la realtà pongono ogni giorno sul cammino. Il padre di famiglia non può dire “io”, ma “noi”, e le sue decisioni sono, spesso, la semplice presa di coscienza di un dovere da compiere. Che, compiuto, gratifica e dà senso e gioia.
Analogamente il sacerdote lascia anch’egli qualcosa, per qualcosa di più grande: per "lasciarsi fare" da Dio, dalla Chiesa, dagli altri. La sua obbedienza deve essere assoluta, perché appartenere a Dio vuole dire non essere più di se stessi, in nulla, ma tutti di Cristo e del prossimo. Il sacerdote non ha una sua famiglia, una moglie con cui mangiare parlare, dormire; né dei figli, che lo salutino e bacino ogni sera, quando torna dal lavoro. Non ha neppure una casa, costruita come la vuole lui. Oggi è in una parrocchia, domani in un'altra. Oggi in una città, domani verrà spostato. Punti fermi, di quelli che hanno tutti, cui aggrapparsi, non ve ne sono. Egli è celibe, cioè votato al cielo, benché viva sulla terra. “E’ separato da tutto e unito a tutti”, come diceva Evagrio Pontico.
La sua verginità assomiglia alla castità del padre di famiglia, ma è molto di più. La verginità sacerdotale è come quella di Cristo: disposta a lasciare padre e madre, a rinunciare a moglie e figli, per avere figli spirituali, cui dare tutto, senza attendersi nulla, nella gratuità più completa. Una volta anziani, i sacerdoti finiscono spesso nella solitudine più nera: hanno servito tutti, ma non hanno qualcuno che li tenga con sé, un figlio che "restituisca" loro ciò che ha ricevuto. Ricordo quando andavo, da ragazzo, a trovarne alcuni in ospizio: quella loro solitudine mi spaventava, eppure vedevo in molti quella stessa forza che doveva averli accompagnati quando erano alla guida, cioè al servizio, delle loro comunità. Quando le loro vacanze erano quelle dei loro parrocchiani; i loro impegni erano quelli degli altri; quando ogni loro decisione veniva presa in base alle decisioni e alle esigenze degli altri.
La castità del padre di famiglia, come quella della madre, ovviamente, è la roccia su cui si costruisce una solida unità familiare: padre e madre non vogliono nulla, o quasi, per se stessi, ma tutto è, in loro, per amore, al servizio delle vite che hanno generato. Servire insieme è già una gioia e un perché... Ma quando un padre cessa di essere "servo", magari per un lavoro o un'altra donna; quando la sua castità è violata, allora si rompe tutto. Non ha più lo sguardo puro su coloro che gli sono stati affidati, ma solo su di sé e sui propri istinti, sui propri capricciosi desideri. Il matrimonio, e la fedeltà che vi è implicata, diviene per lui un limite, che non sopporta più. Persa la castità, l’uomo perde il controllo di sé, e finisce per dissiparsi, nell’illusione di ritrovarsi.
Analogamente il sacerdote è chiamato ad una verginità totale: altrimenti non potrebbe diventare padre spirituale, né materiale, di figli che non sono carnalmente suoi. Come avrebbero potuto, tanti sacerdoti della storia, creare ospedali, orfanotrofi, partire per le missioni in paesi lontani, sino alla morte, se non avessero abbracciato il celibato, se avessero avuto una famiglia loro, che gli avrebbe impedito di essere di tutti? Ma la verginità non è facile. E’ un vuoto vertiginoso che, per portare molto frutto, deve essere riempito: di Cristo, di preghiera, di santità. Allora risucchia e attrae, verso il Bene. Il sacerdote che è veramente vergine, nel corpo e nello spirito, è veramente padre: guarda ai suoi figli “adottivi” con una gratuità soprannaturale. Non in quanto suoi, ma in quanto anime immortali amate da Dio. Tutto proteso verso il loro bene.
Ecco perché i sacerdoti santi trasformano il mondo, così come i padri fedeli lo rendono migliore e più umano. Ma quando un sacerdote non colma più quel vuoto con Dio, finisce per riempirlo di stoppa: onori, carrierismo, clericalismo, superbia della mente (quanti teologi non vergini!), peccati carnali...In questo caso il sacerdote, tradendo Cristo, non lascia orfani due o tre figli, come un padre di famiglia fedifrago, ma molti di più, e spesso uccide in tanti il germe della fede che avrebbe dovuto coltivare. Il Foglio, 5/8/2010