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Due cari amici, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno scritto oggi su Libero questo pezzo:
Se si trattasse solo di un comprensibile timore che ogni uomo prova in prossimità della fine, forse basterebbe una scommessa, un’ultima guasconata, per arrivare fin sulla soglia storditi abbastanza da non pensarci. Se fosse così, avrebbero ragione l’illuminismo e i suoi epigoni quando indicano nella banalissima paura della morte la banalissima origine della religione.
Se fosse così. Ma evidentemente non lo è, se fior di uomini di ingegno, figli delle più estrose varianti dei lumi, in prossimità del momento cruciale, si sono incamminati lungo strade imprevedibili. Evidentemente, non è così se le loro decisioni ultime tengono banco tra credenti e non credenti.
Se si continua a parlare della conversione di Renato Guttuso (nella foto la sua crocifissione), di quella indecifrabile di Indro Montanelli, di quella inquieta di Oriana Fallaci o di quella quasi certa di Antonio Gramsci. La conversione, o comunque la fiduciosa apertura su una trascendenza a lungo negata, continua a esercitare fascino persino sui disincantati abitanti del terzo millennio poiché va alla radice dell’esistenza di ogni singolo uomo. E sarebbe comico, se non fosse tragico, che gli unici a esserne imbarazzati sono certi cattolici che invitano il prossimo a non convertirsi in nome di una non meglio precisata autenticità.
Eppure, non vi è autenticità più concreta che la risposta al perenne richiamo del Vero, del Bello e Buono indicato da papa Benedetto come cifra del cuore di ogni uomo. Un richiamo pacificatore capace di rendere vero l’essere umano nel momento più importante della propria vita. Quando a San Carlo Borromeo chiesero che cosa avrebbe fatto se gli avessero detto che sarebbe morto entro un’ora rispose: “Cercherei di fare particolarmente bene ciò che sto facendo ora”.
Altri tempi, verrebbe da dire, e per certi non si sbaglierebbe. Erano tempi in cui i sacerdoti tenevano sul loro scrittoio un teschio proprio per aver ben presente la caducità dell’esistenza. Erano i tempi in cui era facile trovare sin nelle case più povere libretti che si intitolavano “Apparecchio alla buona morte”. Eppure, proprio per questo, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, erano tempi pieni di vita.
Un uomo del Seicento non aveva bisogno di trovarsi davanti all’assurda tragedia del Love Parade per scoprire che esiste la morte. E, soprattutto, ne aveva avuto ben chiaro il senso. L’uomo moderno, invece, si trova sempre più spesso nella condizione di dover prendere atto dell’epilogo solo poco prima che avvenga. E, allora, non può più fingere. Per tutta la sua esistenza può aver giocato con la sacralità della vita. Può aver occultato, dissacrato, violentato il mistero della nascita, può continuare a ritenerlo un fatto puramente biologico fino all’ultimo atto della sua esistenza.
Ma la morte gli si presenta inevitabilmente anche sotto un aspetto soprannaturale. E, in questo frangente, non c’è teoria che tenga. Per la prima volta, il mistero gli si presenta in forma tanto decisa e prepotente da non essere eludibile. Ma gli si presenta in forma sincera e generosa, come Qualcosa che non deve essere decifrato o svelato, ma come Qualcosa che gli si fa incontro per dirgli chi è veramente. La consapevolezza dell’eterno si fa largo nella coscienza e mostra con le piccole, grandi e concrete evidenze della decadenza che l’eternità non ha nulla a che fare con il dato biologico ma con l’interezza della persona, anima e corpo.
Ed è qui, che la conversione giunge a compimento, nel punto in cui la persona finita scopre che può trarre il senso autentico della propria vita da una Persona che finita non può essere. Oggi, molti sostengono che il problema dell’ateismo sta nella difficoltà di spiegare l’origine della vita. In realtà, il vero problema dell’ateismo sta nella sua strutturale incapacità di spiegarne la fine. Il razionalista può anche illudersi di padroneggiare l’inizio dell’esistenza, ma non potrà mai farlo con la sua fine, neanche puntandosi un pistola alla tempia.
In prossimità della fine l’adulto è molto meno adulto di quanto potrebbe immaginare. Non a caso, gli insegnamenti più concreti sulla morte si trovano nelle fiabe. Ve n’è uno straordinario in un racconto modernissimo, nel film “Mr Magorium e la bottega delle meraviglie”. Al momento di lasciare questo mondo, uno straordinario Dustin Hoffman spiega il senso di tutto dicendo: ‘Quando re Lear muore nel quinto atto, sai Shakespeare che ha scritto? Ha scritto ‘muore’!”. Ci voleva un genio per raccontare in una parola il senso della vita. Ci vuole Dio fare in modo che quel senso non sia vano.