Alessandro Manzoni e la questione della lingua. Un problema ancora attuale, seppure in forma diversa
Alessandro Manzoni, su esempio di Walter Scott, nel 1821 decise di avventurarsi nella composizione di un romanzo storico. L’autore milanese scelse di ambientare la propria vicenda nello scenario della Lombardia del Seicento, cercando di mantenersi il più possibile fedele alla realtà e lasciando all’invenzione solo lo stretto indispensabile. Per riuscire in questa opera documentaria di descrizione, Manzoni fece molte ricerche d’archivio, cercando le varie Grida emanate tra il 1628 e il 1630, leggendo svariati libri, sia narranti vicende storiche dell’epoca, sia autobiografie.
L’elemento di studio personale, però, non fu il solo tema ad impegnare Manzoni. Infatti, il problema di più vasta portata che l’Autore milanese dovette affrontare fu quello della lingua da adottare.
Il tema è affrontato esplicitamente nella “Seconda Introduzione” del Fermo e Lucia, allorquando lo scrittore milanese afferma di non poter trascrivere l’intero manoscritto che ha trovato in prosa barocca, perché questo stile sa essere “rozzo insieme e affettato nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo”, senza tralasciare il fatto che l’Anonimo compositore del manoscritto inserisce tra le righe della sua vicenda alcune affermazioni con cui Manzoni non si trova affatto d’accordo.
“Ma, rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi abbiamo sostituito? Qui giace la lepre.
Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola, qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l’abbiamo presa, perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d’Italia, si fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intellegibili, ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia l’imitazione d’una verità locale alla purezza della lingua; persuasi come siamo che quel primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si possa conciliare col secondo. […] Basta all’autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno per gloria lo scriver male. Per gloria! Quand’anche ella fosse impresa difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di se: è un privilegio delle prefazioni, un piccolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I doni dell’ingegno non si acquistano, come lo indica il loro nome stesso; ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch’io non lo acquistassi.[…] A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favella tori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole o frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodochè se un parlante o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’essere molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del nò. Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l’egregio cavino dallo stesso fondo, e dopo d’averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d’idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro significato che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l’idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell’uso particolare.
Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l’ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che abbia posto studio nell’udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori come d’accordo abbiano formata questa lingua ch’egli debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali.
Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere. E’ ben certo che v’ha molte lingue particolari a diverse parti d’Italia, che in una sfera molto ristretta d’idee certamente, ma hanno quell’universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale, fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc. era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto sempre libri pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un’altra quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto, desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori, convengano una volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono avere ragione soli in una tale materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel che convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o quasi universale uso d’una lingua comune”.
Manzoni è convinto che per affrontare compiutamente questa “questione della lingua” sia necessario scrivere un intero libro. Cosa che aveva anche cominciato a fare, salvo poi gettare tra le fiamme le pagine scritte.
Il passaggio tra Fermo e Lucia, l’edizione Ventisettana e la Quarantana de I Promessi Sposi, vede un progressivo evolversi della lingua impiegata nella narrazione.
Se nella prima tappa della revisione del romanzo, che va dall’estate del 1824 alla pubblicazione in tre tomi de I Promessi Sposi del 1827, oltre ad una revisione linguistica per mezzo libresco, con l’ausilio soprattutto del Vocabolario del Tommaseo, si ha anche una revisione strutturale, tematica e stilistica, la successiva fase - quella che porterà all’edizione definitiva del romanzo - si concentra esclusivamente sulla forma linguistica, dando luogo a quella che è stata chiamata “la risciacquatura in Arno”. Manzoni, infatti, nell’estate del 1827 farà un viaggio a Firenze per studiare sul campo la lingua toscana e, una volta tornato a Milano, si farà aiutare nel certosino lavoro di correzione dalla domestica toscana Emilia Luti e da altri amici provenienti dalla medesima regione. Quello che più importa all’autore è, certamente, utilizzare espressioni toscane, ma stando ben attento che tali espressioni siano realmente utilizzate nella lingua corrente dalle gente, che non siano forme obsolete o troppo affettate.
Oggi dobbiamo essere grati ad Alessandro perché è anche grazie a lui (oltre che a libri come Pinocchio di Collodi o Cuore di De Amicis) se noi parliamo un italiano uniforme su tutta la Penisola italiana.
Per esempio, senza I Promessi Sposi, probabilmente l’imperfetto si formerebbe ancora con la terminazione in –a, invece della ormai consueta in –o…
L’unica riflessione che si potrebbe fare è la seguente. Se nell’Ottocento c’era il problema di creare una lingua italiana universalmente intesa, oggi la questione che si fa sempre più pressante è quella della degenerazione che tale lingua sta subendo. E, affermando questo, non ci si riferisce solamente al modo - alle volte rasente la crittografia - di scrivere SMS e mail (Hola, ke mi kombini? 6 a kasa nel pomer? Baci8, è un esempio abbastanza comune). Quello che desta ancora più preoccupazione è il modo in cui vengono scritti determinati libri che escono sul mercato, oppure alcune tesi di laurea…
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