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Dove nasce la dignità umana
Di Marco Luscia - 10/08/2011 - Bioetica - 2179 visite - 0 commenti

Vediamo ora di chiarire dove realmente risieda il fondamento della dignità di ogni uomo, la radice della sua intangibilità.
Dirò subito che la persona non sorge in un dato momento dello sviluppo embrionale: essa ha origine con l’embrione stesso, un’ origine che conoscerà uno sviluppo lungo tutto il corso dell’esistenza.
Il dato primario che si accompagna al concepimento è l’emergere, da un incontro –spermatozoo ed ovulo materno- di un nuovo soggetto, di una nuova individualità. Questo, mi pare, sia stato ampiamente dimostrato.
Il primo tratto della persona, sia essa un embrione, un feto, un bambino, un adulto, un anziano, è la sua esistenza. Perciò, come afferma il filosofo Paul Ricoeur, ciò che conta non è il cogito, bensì il sum, non il pensiero, ma l’essere. Ciascuno di noi è, in modo esclusivo. Tutto sta racchiuso nel patrimonio genetico, il futuro è lì. Prima di ogni caratteristica, qualità o proprietà personale, vi è il semplice essere. “Ciascuno di noi è anzitutto una riserva di essere: essere vivo, dinamico, operoso, non inerte, statico, immobile. E’ l’atto d’essere che sorregge tutto l’uomo e che gli consente di svolgere squisitamente attività spirituali ( l’autocoscienza, la comunicazione, la libertà, il pensiero ecc… )”.


E non si dimentichi che un’attività spirituale è svolta persino da figli portatori di handicap, dai malati cronici; anzi, essi sono spesso il “tempio” dove si celebra la liturgia della sofferenza e dell’amore, della rinuncia, della gratuità, della preghiera. Al riguardo vorrei ricordare una straordinaria testimonianza di due genitori di un bimba Down: nel giorno del suo battesimo così le scrivono: “Carissima Anna, oggi è il giorno del tuo Battesimo il giorno in cui entri a far parte della grande famiglia dei figli di Dio. Ma noi crediamo che il Signore già da tempo ti avesse nel suo cuore e ti ha voluto farcene dono perché ne avessimo cura per conto suo. Dobbiamo dire che sei stata un dono con sorpresa(…). Stiamo capendo ora che cosa significhi realmente sindrome di Down. Quello che possiamo dirti ora è che non molti sono così e che quindi in un certo senso tu sei rara. Ed è proprio questa rarità che ti fa più preziosa, perché sei più delicata, più fragile, ed hai bisogno di più aiuto per imparare a crescere. Ciò però non ti impedirà di amare, anzi ti aiuterà a farlo con più sincerità e con più gioia. Ti assicuriamo che noi, persone non rare, facciamo fatica ad amare, perché ci costruiamo barriere chiusure che ci impediscono di farlo. Siamo sicuri che tu ci aiuterai a migliorare, anzi hai già cominciato a farlo”.


Questo è il comportamento di chi ama la vita, diametralmente opposto alla logica eugenetica, del diritto al figlio sano. La mamma ed il papà di Anna sembrano persone lontanissime, distanti ed incomprensibili a chi ha ceduto alla logica dell’efficienza, del consumo, della qualità della vita, del tempo sradicato da ogni eternità, dell’attimo che persegue il piacere.


Ma torniamo al quel primo “esserci”, all’atto del concepimento, al momento in cui si attivano infinite potenzialità ed in cui comincia il faticosissimo cammino dei primi nove mesi di vita.
La persona per realizzarsi, per dar luogo al progetto che è inscritto in quel primo istante, deve essere accolta, deve trovare un tu, che predisponga l’accoglienza. Questo tu è la madre, una madre distinta dal concepito; essa rappresenta l’ambiente, il luogo, fatto di elementi biologici, fatto di carne, ma anche di attesa, di paure, insomma di spirito. Una madre non produce un bambino, lo accoglie; persino lei, da sola, nulla potrebbe. Pertanto l’espressione fare un figlio ci appare anch’essa inadeguata; è necessario un padre perché il miracolo della vita abbia luogo. Ma neppure padre e madre insieme sono i proprietari di quella nuova creatura. Certo l’enfasi di una certa ideologia femminista ha identificato la madre e solo lei come unica titolare di diritti sul proprio figlio; il che è aberrante.
Il frutto del concepimento non appartiene alla madre e per confutare la tesi di coloro che sostengono che il figlio è proprietà materna, di cui disporre.

Osservava il filosofo Romano Guardini in un libretto pubblicato nel 1949: “(…) il bambino nel grembo materno, se da un lato le appartiene e vive in lei, dall’altro lato è a lei sottratto, poiché è sottoposto alla legge della propria personalità, ancora latente certo, ma già data. La Madre non è la padrona della vita in divenire, ma questa le è affidata”. E ancora: “Esser madre non significa produrre vita - anche gli animali fanno questo- , ma dare la vita a un uomo. E un uomo è una persona, dapprima come assopita e poi, pian piano, destatesi; così, in immediato rapporto con la madre, cresce un essere che formandosi si sottrae a lei seguendo la propria destinazione interiore”. Proprio come l’adolescente, che dopo essere dipeso per anni dai genitori, scopre la propria identità separandosi, ma senza quel legame, quella dipendenza durata anni, egli non diverrebbe mai uomo. Tutti dunque siamo “legati,” dipendiamo l’uno dall’altro; l’autonomia, come patente dell’essere persona è una pura astrazione.

Quindi mi pare lecito dire che, dal momento in cui un nuovo essere si affaccia alla vita, dovremmo comunque accoglierlo, poiché non è lecito disporre di alcuno, anche se questo qualcuno non ha ancora sviluppato certe qualità, in primis quella di difendersi. Ciò potremmo affermarlo seppure negassimo Dio.
Ma una bioetica che neghi Dio, come abbiamo visto, fatica a riconoscere il debole, finendo con l’approdare nelle “regioni” dove domina la logica del più forte. Da questa logica discende l’idea secondo la quale i criteri di scelta rispetto alla vita siano dettati da ragioni di tipo utilitaristico; insomma le ragioni di Singer e di Engelhardt e per il vero di molti altri che si collocano nel loro solco.


La ragione su cui si fonda la dignità dell’uomo, la sua particolare dignità, che lo distingue da ogni altro essere vivente -va affermato con forza- sta in una relazione che lo sorregga.
E’ la chiamata all’essere da parte di Dio che fonda la dignità personale: “la persona è fondata sulla relazione con Dio: la personalità -che è sviluppo successivo- è il frutto del cammino dell’uomo positivo o negativo, l’uomo è persona in tutti i momenti della sua maturazione spirituale, materiale emotiva”. L’uomo viene alla vita come persona per poi sviluppare la personalità. I negatori del titolo di persona all’embrione, al feto, al bambino appena nato affermano che la persona è l’essere in relazione; ma per loro, relazione, significa soltanto autocoscienza, responsabilità piena. Questo tipo di interpretazione della natura dell’essere personale mi sembra fortemente riduttiva, perché esistono relazioni spirituali profonde anche senza parole, anche fra sconosciuti. Altrimenti dovremmo dire che un uomo dormiente non è persona, che un mongoloide non è persona, che un malato di demenza senile non è persona.


Corpo materiale e anima spirituale formano la persona, e poiché lo spirituale non può prodursi dal materiale esso è dato dall’esterno, nell’atto del concepimento. Dobbiamo perciò supporre che nell’uomo venga insufflata l’anima. L’anima, secondo una consolidata dottrina teologica di matrice tomista, prepara gli organi di senso; l’anima si costruisce un corpo, e il corpo è l’anima che prende consapevolezza di sé.
In questa meravigliosa pagina del filosofo Emonet credo si sintetizzi assai bene la posizione cattolica rispetto al mistero dell’anima. “Se l’anima umana si prepara un corpo così strutturato, non è semplicemente per nascere a se stessa, ma anche per nascere a tutto ciò che esiste sia nella conoscenza che nell’amore. Grazie al suo corpo l’anima può ricevere in sé tutte le cose e nascere ad esse conoscendole. Inoltre è ancora grazie al corpo che l’anima può uscire da sé per incontrare le cose portandosi verso di esse nell’amore. Così nella conoscenza l’anima accoglie in sé tutte le cose e nell’amore porta se stessa presso le cose”.
Nella prospettiva cristiana dunque è possibile fugare tutti i pericoli che una dimensione dell’umano puramente materiale trascina con sé.


Per concludere questo nostro breve saggio torniamo alla bioetica laica, ai paradossi cui porta, dovendosi per definizione fondare sul consenso. Un consenso generatore di valori che mutano in continuazione, e ciò in relazione alla forza dei “contraenti”che si accordano sui principi.
Il punto di partenza della prospettiva laica mi pare possa essere così riassunto: seppure esiste una verità essa non può essere conosciuta; seppure è rintracciabile la ragionevole evidenza di certi principi -ma su di essi non si raggiunge l’accordo- i principi vanno subordinati al valore del consenso, che risulta perciò essere l’unico assoluto.
Perciò un’etica di questo tipo mi appare tutto fuorché razionale; essa è il prodotto di pressioni e stati emotivi, di interessi e di mode, delle indicazioni sociali prevalenti. Come si può definire scelta ragionevole l’aborto, come si possono definire conquiste di civiltà l’eutanasia, il divorzio breve, lo sfascio sistematico della famiglia ? Le leggi che pretendono di dirsi legittime solamente perché frutto di un consenso, in realtà non mi paiono portatrici di ragione, bensì di interessi, che nelle ipotesi più tristi fanno il gioco di ragioni elettoralistiche. Di conseguenza nel nostro mondo è andata diffondendosi una mentalità totalitaria che non ammette neppure la discussione rispetto a certe tematiche.


L’etica laica mi appare come un’etica debole, esito, sempre provvisorio, di rapporti di forza che azzerano chiunque non sia in grado di difendersi da solo, di far valere le proprie ragioni. Si tratta dunque di una prospettiva violenta che si traveste del valore di un’errata idea di tolleranza, la quale parte dal presupposto che gli esseri umani siano stranieri l’uno all’altro.
Esito funesto di un consumismo sfrenato, che si coniuga ad un mondo senza Dio, così come concepito e in parte realizzato dal pensiero radical-marxista.
Voglio concludere con un episodio accaduto durante una delle mie lezioni, in una quinta liceo.
Esposte le idee propugnate da Singer, alcuni alunni non hanno trovato nulla da ridire sul fatto che la vita di un maiale sano abbia maggior dignità della vita di un neonato malato, oppure che in caso di carestia l’infanticidio possa essere ammesso, vista la scarsità di risorse, o ancora che un figlio handicappato, nel caso di costi eccessivi per il mantenimento da parte di uno Stato, possa essere soppresso per ottimizzare le risorse, magari per allevare maiali sani da poter mangiare.


Tanto -si dice- il neonato non è persona; non parliamo poi del bimbo nel grembo materno, egli vivrebbe solo per gentile concessione della madre!
Ora, molti di questi ragazzi, non hanno mai ragionato su tali temi, sono totalmente a digiuno di questioni di bioetica; ma allora cosa ha fatto sì che certe idee aberranti a loro sembrino delle tutto normali? Questo interrogativo deve inquietarci; molti di loro ragionano già ormai pervasi da una concezione della vita totalmente materialistica, protesa all’utile, dove i principi cardine sono l’individualismo, l’allontanamento di ogni imperfezione, di ogni sacrificio, di ogni orizzonte morale. Sono giovani lasciati in balìa della cultura neutralista, che si proclama laica e perciò rispettosa di ogni diversità.
Ebbene essi, lasciati a se stessi, hanno sviluppato idee di una tale intolleranza, di una tale violenza verso i più deboli che mi lasciano senza parole e magari sono quegli stessi che appendono fuori casa la bandiera della pace o che si commuovono per lo sterminio delle foche.


Spesso -direbbe Augusto del Noce- l’amore per il lontano, maschera l’odio per il vicino.
Il nostro tempo esaltando l’individuo, esaltando la libertà di coscienza ha dimenticato che nessuna coscienza è un oracolo, anzi. Ci si dimentica che ogni coscienza può scegliere rettamente soltanto se è educata a dei principi a dei valori. Oggi l’unico principio appare l’opinione, il confronto dei punti di vista che nascono a livello emotivo e per questo ogni volontà di approfondimento, di radicamento è vista con sospetto. Gli stessi padri del liberalismo sarebbero sconcertati da una perdita così radicale dei principi che fanno il sentire comune, l’ethos condiviso.
Speriamo che i dibattiti in corso e l’esigenza di significati, di senso, che emerge da una realtà sempre più frammentata, apra la strada verso una rinascita della morale, per il bene dell’uomo, per il bene del più debole.

Da: Chiesa, sesso e morale, Sugarco

 
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