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Le radici filosofiche e antropologiche che negano la sacralità della vita
Di Marco Luscia - 07/07/2010 - Bioetica - 1108 visite - 0 commenti
Qual è la radice filosofica, la concezione dell’uomo, sulla quale si innesta il rifiuto di riconoscere alla vita umana il valore che le compete?
Alla fonte del nucleo concettuale che conduce alla negazione della qualifica di persona umana, tutelata da diritti inviolabili, troviamo un percorso filosofico cui per ragioni di spazio farò sommariamente riferimento.
Schematicamente, possiamo procedere in questo modo; cioè formulando la definizione di quattro negazioni e di quattro affermazioni correlate.
Ecco le quattro negazioni: negazione di Dio, negazione di ogni metafisica, quindi negazione di ogni possibile verità e perciò negazione dell’esistenza di una natura umana inscritta da sempre in ciascuno di noi.
Ecco le quattro conseguenti affermazioni: affermazione dell’uomo come potenza: l’uomo appare la fonte di ogni valore, colui che dispone del mondo e lo modifica a proprio piacimento; affermazione della riducibilità dell’esperienza umana a dati sociologici, biologici, culturali: l’esperienza umana dalla più semplice alla più complessa sarebbe riducibile a dati oggettivi, attraverso un processo negatore di ogni mistero. Per tale via, con il tempo ed il progresso delle scienze, l’uomo diventato “trasparente a se stesso”, potrebbe progettare ogni aspetto della propria vita materiale ed emotiva. Già oggi assistiamo al tentativo di ridurre l’amore ad una semplice reazione biochimica. In tale modo l’uomo viene sempre più diretto dall’esterno, perdendo ogni libertà. Stiamo, in sostanza creando una società di esseri che dipendono da tutto, dagli esperti di turno, dai maghi, dai veggenti, dagli agenti chimici, e tutto questo allo scopo di ricreare la natura umana. La terza affermazione è quella che ci pone di fronte ad un relativismo assoluto: solo la storia produce valori, non esiste nulla di dato, di duraturo, tutto è transitorio e frutto di scelte culturali date dall’opportunità del momento; ed in ultimo l’affermazione che l’uomo è ciò che diventa, ovverosia privo di una natura data.
Partendo da questo ultimo punto possiamo subito comprendere che se prendiamo per vera questa definizione, ogni essere perde ogni dimensione di “potenzialità”, scompare il dover essere, tutto può diventare lecito, persino il suicidio, secondo una logica che privilegia l’assoluta autonomia e la forza. Membro di questa società può diventare soltanto chi può far pesare la propria presenza e forza contrattuale, chi può decidere, anche per coloro che per svariati motivi non possono farlo.
In tale prospettiva possiamo comprendere tutte le considerazione che seguiranno.
Per limitarci al tema oggetto della nostra riflessione, ovvero la prospettiva di una bioetica laica, deduciamo come essa sia riducibile a tre chiavi interpretative, le quali presumono di stabilire cosa sia bene e cosa sia male nei confronti della vita umana indifesa.
Il primo criterio, frutto della nostre premesse, è di tipo “emotivista”: bene o male si fondano soltanto sul desiderio del soggetto mentre la vita dell’embrione, del neonato, del malato, è concepita come cosa, come proprietà di cui disporre, in base al sentire soggettivo. Ad esempio: "se il soggetto vuole un figlio, deve poterlo volere come, quando e secondo le modalità da lui stabilite; se non lo vuole, rivendica la facoltà di potersene liberare subito (aborto); se una vita non è ritenuta degna di essere vissuta, vi mette fine (eutanasia, diagnosi reimpianto ecc..)". L’idea che si esprime in questo modo di pensare è che la vita vale in ragione della sua qualità, qualità che in primis si esprime con la facoltà di “scegliersi liberamente”. I prodromi di tale mentalità vanno ricercati nel pensiero di Sartre, il quale afferma: “essere vuol dire scegliersi: niente -alla realtà umana- viene dal di fuori, né tanto meno dal di dentro, che essa possa ricevere o accettare (…) la realtà umana non può ricevere i suoi fini (…) da una natura interna”. Secondo Sartre –dunque- realizzare la natura umana è realizzare questa libertà infinita, dove tutto è possibile, in cui le opzioni si equivalgono, dove il valore delle scelte è sempre un punto di vista, mai una verità da compiersi. Viene così negato il principio della sacralità della vita, in ragione del fatto che soltanto l’esistenza di Dio sarebbe in grado di giustificare la sacralità della vita. Si configurano già a questo primo livello di analisi quelli che potremmo definire, i padroni della vita, cioè gli uomini sani, pienamente auto-coscienti, che decidono al posto di chi non può decidere, in quanto, non persona.
La “logica emotivista”, si servirà per affermare la validità dei propri contenuti, del supporto dei grandi mezzi di informazione da tempo oramai piegati al sevizio di oligarchie economico-culturali. Inoltre farà leva su una serie di casi pietosi per giustificare le proprie tesi; così il rifiuto di un figlio malato verrà presentato come forma di pietà e d’amore verso una vita non degna di essere vissuta, con ciò mascherando la realtà del problema: la non disponibilità del soggetto “forte” di farsi carico del debole.
Il secondo criterio si lega al primo, anzi, ne è probabilmente la causa; si tratta della logica dell’utile. Utile per il singolo e utile per la società; “così la vita umana è condizionata da parametri di tipo economico che conducono a politiche di sterilizzazione, contraccezione forzata, aborto”, massimizzazione nell’utilizzo delle risorse, siano esse familiari o statali.
Il terzo criterio, subdolo, apparentemente democratico, è quello dell’opinione dominante, un criterio dunque di carattere sociologico.
Secondo questa “visione etica” non esistono valori inviolabili poiché i valori sono posti o imposti dalla storia, perciò rispetto alla vita umana e al suo valore dovremmo far riferimento al sentire della società presente: il buono e il bene sarà ciò che la maggioranza che “governa” reputerà tale. Ciò tenendo conto di un positivismo giuridico che farà propria quella norma non perché espressione di un valore, bensì di un compromesso. Si finisce così con il confondere la verità con l’attualità, cioè con quello che in un dato momento appare importante, indilazionabile, attuale, appunto. Un’ attualità per altro, manipolata, frutto di molteplici suggestioni e persuasioni più o meno occulte.
Non dobbiamo però stupirci di questa prospettiva perchè essa è il prodotto della negazione di Dio e della negazione dell’essere. Osserva giustamente Aramini, studioso di Bioetica: “Ciascuno può facilmente comprendere quanto queste forme di pseudo moralità siano diffuse e come diventi arduo perciò costruire itinerari di riflessione morale”. Un tal modo di procedere rivela tra le altre cose un tratto tipico del nostro tempo definibile come pessimismo della ragione. Su questo, nota argutamente Zuccaro: “Questo pessimismo della ragione, apre però lo spazio all’ottimismo della volontà: infatti proprio perché il mondo si presenta vuoto di una verità assoluta e di senso, esso diventa pagina bianca sulla quale noi possiamo scrivere finalmente tutto quello che la nostra creatività riesce a concepire. In primo piano non c’è la regola della ragione, ma l’affermazione della volontà individuale(…)«nell’infinità priva di senso del mondo, del reale, noi siamo dei soggetti culturali, capaci, cioè, di scrivere dei piccoli frammenti di senso.( M.Weber)»”.
 
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