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Tra i tanti maestri dimenticati della filosofia italiana Rosmini (Rovereto, 24 marzo 1797 – Stresa, 1 luglio 1855) è certamente uno dei più noti e travisati. Per lungo tempo soffrì in vita l’ostracismo di tanti uomini di Chiesa e anche dopo la morte solo pochi coraggiosi, tra i quali Michele Federico Sciacca, lo lessero, lo compresero e ne riproposero le intuizioni, talmente potenti e radicate nella grande tradizione filosofica da essere ancora attuali.
Fin dagli anni giovanili, Rosmini concepì, in polemica con i filosofi francesi dell’Enciclopédie, un progetto di enciclopedia cristiana nella quale i diversi campi del sapere fossero connessi da principî comuni e le diverse voci non fossero semplicemente giustapposte senza alcun ordine, come nell’enciclopedia illuminista.
Per questo motivo Rosmini scrisse molto e si interessò a diverse discipline.
1. Qui vorrei affrontare il problema della libertà di insegnamento che fu argomento di accese discussioni nel Piemonte preunitario della prima metà dell’800. Per difendere i diritti dei maestri e delle scuole cattoliche Rosmini scrisse un opuscolo intitolato Della libertà dell’insegnamento (1) la cui attualità vorrei mettere in evidenza. La libertà d’insegnamento è un diritto naturale che nessuno Stato può calpestare qualunque sia la sua forma di organizzazione. Si tratta di operare secondo giustizia. «Qualsiasi questione politica dev’essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia» (p. 71). Quest’ultima, infatti, è la bussola che deve orientare l’operato di un governo, affinché possa essere rispettato e godere del favore dell’opinione pubblica. La giustizia conferisce al governo «dignità morale» (ibidem) più della forza e lo rende capace di essere realmente imparziale riguardo alle contese che possono dividere in fazioni la società. Ma attenzione: imparzialità non significa, per Rosmini, ricerca di una soluzione di compromesso che non è mai duratura, ma individuazione di una soluzione vera, appunto secondo giustizia. La giustizia, in quanto specie del genere “bene” ha un forte legame anche con la verità. Se sganciata dal bene (come in molta della filosofia politica e del diritto che va per la maggiore (Habermas e Rawls su tutti)) la giustizia perde anche il suo legame con la verità e, quindi, non solo non è più giustizia, ma soprattutto non porta ad un reale accordo tra quelli che Rosmini chiama partiti, senza intendere con questo termine i nostri “partiti politici”, ma solo le fazioni in dissidio. La libertà d’insegnamento è una questione cruciale, eppure – si rammarica Rosmini – «le leggi fondamentali negli stati moderni sono quelle che s’eseguiscono meno, perché l’altre leggi devono eseguirle i popoli, e le leggi fondamentali devono eseguirle i Governi. I popoli sono obbligati all’esecuzione delle leggi comuni da’ Governi; i Governi non hanno alcuno al dissopra, che li costringa a dare esecuzione alle leggi costituzionali, di cui anche si usurpano la interpretazione» (p. 72).
È questo un passo che testimonia il giusnaturalismo di Rosmini e il suo grande realismo politico. Qualcosa, secondo il Roveretano, precede lo Stato; il diritto naturale precede il diritto positivo (2). Lo Stato deve limitare il proprio diritto di legiferare attraverso il dovere di confermare, proteggere e incentivare i diritti che ogni persona possiede naturalmente. Tra questi diritti vi è quello di insegnare per coloro che ne possiedano le adeguate competenze. Si tratta di un tema, quello del rapporto tra diritto e dovere, che percorre tutta la produzione rosminiana nel campo della filosofia del diritto e della politica. La persona fondamento e fine della civil società (come la chiama Rosmini) nasce con determinati diritti ai quali corrispondono specularmente altrettanti doveri. Ogni diritto non può essere indeterminato, ma deve avere un limite che ne regoli il giusto, e quindi buono, esercizio. Giungiamo per questa via alla nozione e fondamento giuridico della libertà d’insegnamento e per prima cosa ci chiediamo con Rosmini in cosa consista la libertà del cittadino. «La libertà» – chiarisce Rosmini – è «l’esercizio non impedito dei propri diritti» (pp. 72-73).
Secondo queste premesse è immediato definire la libertà d’insegnamento come «l’esercizio non impedito del diritto di insegnare e di imparare» (p. 73). Il diritto di insegnare e di imparare è tale per natura perché l’uomo ha il diritto di esercitare le proprie facoltà secondo un fine che sia onesto (3). A questo proposito tutte le azioni che impediscono questo esercizio ad un uomo, siano esse messe in atto da un altro uomo o da uno Stato, sono azioni tiranniche e illiberali (4). La facoltà di insegnare possiede una sua bontà intrinseca: «uno dei più santi e nobili usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d’insegnare altrui cose utili e vere, e di impararne da tutti» (p. 72).
Il diritto di insegnare e di imparare sono correlativi perché dove uno dei due è impedito anche l’altro è mortificato. Nella sua applicazione, però, il diritto deve avere dei limiti affinché la libertà di esercitarlo non si trasformi in arbitrio o licenza. Stando alla definizione suggerita da Rosmini, il diritto di insegnare deve subire tre limitazioni: a) la mancanza del sapere necessario ad insegnare una determinata disciplina; b) la mancanza dell’onestà dell’insegnamento: «non c’è infatti un diritto di insegnare il male o l’errore»; c) la mancanza di inoffensività nel modo di insegnare. «L’esercizio non impedito del diritto di insegnare così circoscritto, ecco quello che forma la libertà naturale giuridica dell’insegnamento, anteriore a tutte le leggi civili» (p. 75). Ma Rosmini non si fa illusioni. Sebbene, infatti, questo diritto d’insegnamento, così circoscritto, risponda ai requisiti della retta ragione e, quindi, al bene e alla giustizia, certamente possono esistere persone che mettono in dubbio le argomentazioni che ho fin qui riassunto e, cioè, tutti quelli che non riconoscono l’autorità della morale e tutti quelli che asseriscono di ammettere una morale, ma la fanno dipendere dalle loro passioni. Entrambe queste categorie di persone hanno un’idea falsa di libertà. Spesso poi il secondo genere di persone, che Rosmini chiama moralisti, si battono per la libertà di insegnare il male e «impediscono, poi ipocritamente di insegnare il bene» (ibidem).
2. Il diritto di insegnamento che fin qui abbiamo considerato astrattamente deve essere ora valutato nelle sue applicazioni concrete.
Secondo Rosmini, hanno diritto di insegnare alcune persone giuridiche, siano esse «individue» o «collettive»: 1) la Chiesa Cattolica; 2) i dotti; 3) i padri di famiglia; 4) i benefattori che col proprio denaro mantengono le scuole; 5) i comuni e le province; 6) il Governo. Bisogna dire che l’opuscolo Della libertà dell’insegnamento è una grande difesa dei diritti della Chiesa contro le usurpazioni dei «falsi liberali», i quali non accettano che la Chiesa, assolvendo al dovere conferitogli dal suo Divino Fondatore (5) insegni e possa essa sola insegnare nel campo della dottrina e della morale, richiamando gli uomini per la salvezza delle loro anime.
Il tema è molto interessante e Rosmini su questo punto è molto lucido anche se di questo non parleremo. Ci interessa qui capire se sia giusto che lo Stato pretenda di avere il monopolio dell’educazione, sovvenzionando esclusivamente le proprie strutture scolastiche, o se al contrario il governo debba salvaguardare anche altre realtà, rispettando così il diritto naturale di altri soggetti educativi non pubblici.
3. I dotti hanno un naturale diritto all’insegnamento, ma hanno anche un altro diritto più specifico che riguarda la libertà di scegliere il metodo. Questi due diritti sono correlativi, cioè si sostengono a vicenda. Verso gli insegnanti il Governo ha dunque il dovere di non impedire la loro attività, di non imporre un metodo e di eleggere gli insegnanti oggettivamente migliori. Vediamo dunque di approfondire questi doveri. «Mancano apertamente a questo dovere primieramente quei Governi che si riservano il monopolio dell’insegnamento». Così Rosmini condanna chiaramente quei Governi che, pretendendo il monopolio dell’istruzione, impediscono il diritto naturale di insegnare. Il Governo, secondo il Roveretano, non può appropriarsi di un diritto che è anteriore allo Stato e ad ogni sua forma di organizzazione. Ma c’è anche un altro motivo. Anche ammettendo che il Governo elegga per l’insegnamento i più dotti, è impossibile che riesca ad assumere tutti coloro che sono competenti nel campo dell’insegnamento. Se, quindi, il Governo si arroga il monopolio dell’insegnamento lede il diritto di alcuni. Non ha importanza che questa lesione avvenga per legge o per atto arbitrario, poiché, come si è visto precedentemente, Rosmini ammette la possibilità che un Governo promulghi leggi ingiuste. È questo il grande tema del rapporto tra diritto naturale e diritto positivo (o «legale» nel vocabolario di Rosmini). Se non vi è piena sintonia (che non significa sovrapposizione) tra diritto naturale e diritto positivo «finalmente havvi un attentato di trasformare l’infrazione stessa del diritto in diritto, snaturando la natura delle cose, dico in diritto legale sancito dalla forza pubblica, che in tal modo viene adoperata a sostegno dell’ingiustizia e ad oppressione dei cittadini» (p. 84).
Non basta. Secondo Rosmini la lesione del diritto di insegnamento non proviene solo dal monopolio dello Stato, ma anche dalla semplice volontà di impedire, «direttamente o indirettamente», la libertà ai dotti di insegnare. Qui la polemica di Rosmini è indirizzata verso quelli che noi oggi chiameremmo concorsi pubblici. Coloro che vogliono insegnare vengono impediti nel loro diritto da un Governo che li sottoponga ad un esame e chieda il pagamento di una licenza per esercitare un diritto naturale. Non si tratta di dire che tutti indistintamente debbano poter insegnare, ma che tutti coloro che ne hanno le competenze possano insegnare senza impedimento di sorta. Secondo Rosmini, che qui concede qualcosa alle dottrine liberali, gli ignoranti desisteranno da soli dal voler insegnare grazie alla concorrenza tra i candidati all’insegnamento, che dovranno dimostrare sul campo le loro capacità. Il Governo non è in grado di scegliere chi veramente merita, perché i criteri dei quali si avvale per la valutazione sono spesso soggettivi e opinabili (ibidem). Su questo punto Rosmini è chiaro: «obbligare tutti i dotti della nazione a presentarsi al Governo, cioè a persone che più fortuitamente che altro lo rappresentano in questa bisogna per essere da tali persone dichiarati dotti a sufficienza per insegnare dico qualunque cosa, incominciando dall’abbicì sino alle scienze più speculative, piuttosto che impedimento, ha l’aria di una impertinenza» (p. 85).
Esiste poi un secondo dovere del Governo verso i dotti che desiderano insegnare, quello di rispettare la loro libertà di scegliere il metodo di insegnamento. Se così non facesse, se cioè imponesse un metodo, il Governo sarebbe «stazionario», «illiberale» e «nemico del progresso». «I metodi dell’insegnamento non si possono certo perfezionare se non per mezzo di liberi, assidui, e non contrastati esperimenti, che facciano i dotti, delle diverse maniere di comunicare il sapere, che essi concepiscono e che possono concepire essi soli» (p. 89). Secondo Rosmini, si tratta di comprendere che ogni persona nella sua irripetibile unicità ha la propria intelligenza e, quindi, il proprio metodo di insegnamento, che può essere adeguato per le capacità di un maestro e nocivo per un altro. Se nell’uomo esiste un’essenza comune questo non significa che l’esercizio delle facoltà che da questa natura provengono debba essere lo stesso. Venire meno alla libertà del metodo porta ad una sorta di formalismo o proceduralismo scolastico per il quale ciò che conta non è la bontà dell’insegnamento o il suo profitto, ma il semplice rispetto di una forma o procedura. È questo un vero e proprio attentato alla dignità della persona la quale si trova costretta ad insegnare come un automa, senza alcuna concessione alla propria creatività (p. 90).
Il Governo ha, come si è visto, anche un terzo dovere che riguarda l’obbligo di scegliere gli istitutori ufficiali tra i più dotti e i più degni e non, quindi, in modo arbitrario. Si tratta qui di rispettare il principio di giustizia distributiva, cioè «la ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo», diceva San Tommaso d’Aquino. Ritorna qui il problema del diritto che, secondo Rosmini, non può essere indeterminato. «Diritti indeterminati non ce ne sono: non c’è mai il diritto se non definito da certi confini» (ibidem). In questo caso, il limite al diritto del Governo di eleggere i propri istitutori è la giustizia distributiva. Riguardo a questo terzo dovere, tratteniamo anche il seguente spunto di riflessione che Rosmini ci propone guardando alla situazione del suo tempo: se il Governo incentivasse l’apertura di scuole da parte dei privati, e quindi rispettasse il diritto all’insegnamento, molte scuole nascerebbero spontaneamente e lì il Governo potrebbe trovare bravi maestri da inserire nelle scuole pubbliche. «Il Governo darebbe in tal modo uno stimolo, e questo produrrebbe un movimento in tutti quelli che si sentono chiamati all’ufficio dell’istruzione e dell’educazione, un movimento, dico, verso all’insegnamento ufficiale, un desiderio di distinguersi per essere poi eletti od onorificamente invitati dal Governo stesso a prendervi parte» (p. 92).
E qui Rosmini esemplifica questo principio appena proclamato richiamando l’esperienza inglese. Il Governo inglese del tempo, infatti, premiava e sovvenzionava i migliori maestri assicurando così la continuità di una buona istruzione. Il pericolo che Rosmini intravede nel modo in cui il Governo sceglie i maestri è quello delle «consorterie», e giudichi il lettore se questo non sia un problema attuale ancora oggi. Il Governo, infatti, non deve scegliere i maestri seguendo pressioni di gruppi di potere o, peggio ancora, delegare la scelta dei maestri a tali consorterie, perché questo è un nuovo attentato alla giustizia distributiva.
4. Non solo i dotti, ma anche i padri di famiglia hanno dei diritti rispetto all’insegnamento dei propri figli. Tocchiamo qui un punto fondamentale e molto attuale riguardante la libertà di educazione.
Dice Rosmini che per diritto naturale i padri di famiglia, o in genere le famiglie, hanno dei diritti specifici che possono far valere nei confronti dello Stato. Il primo di questi è il diritto a poter scegliere senza alcun ostacolo la scuola dei figli, sia essa pubblica, privata, «ufficiale o non ufficiale», estera o italiana. Questo è il primo punto di grande interesse, che riguarda la nostra attualità e il dibattito sul finanziamento alle scuole non statali. Se, infatti, i padri di famiglia hanno il diritto e il dovere di educare i propri figli bisogna ammettere che in questo diritto rientri quello particolare di scegliere a chi delegare una parte di questa educazione, ossia l’istruzione. Qualunque Governo si opponesse all’esercizio di questo diritto dovrebbe essere considerato ingiusto nell’esercizio del suo potere.
Secondo Rosmini, la pratica dell’educazione esclusivamente pubblica più o meno mitigata, più o meno esplicita, è un attentato ai diritti della persona. Non è dunque lecito che le famiglie che decidono di educare i figli in scuole private siano costrette a pagare la scuola privata e contemporaneamente la tassa governativa per la scuola pubblica. Si tratta di un tentativo del Governo di limitare un diritto naturale e, quindi, di un attentato alla libertà. Su questo punto si può aggiungere che, secondo Rosmini, lo Stato è chiamato non solo a proteggere e riconoscere il diritto dei genitori, ma anche ad incentivarlo con un aiuto alle scuole non statali, che dovranno sostenersi eventualmente anche grazie all’intervento di benefattori privati. Questo perché lo Stato così facendo protegge la libertà dei genitori, ma anche la libertà dei dotti di insegnare.
Note: (1) ANTONIO ROSMINI, Della libertà dell’insegnamento, in Scritti pedagogici, Edizioni Rosminiane Sodalidas, Stresa 2009. Tutte le citazioni di questo articolo sono tratte da questa opera, salvo diversa indicazione. (2) «I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste ovvero ingiuste, e in questo caso, con un’ altra parola sono tiranniche», p. 73. (3) Qui onesto è da intendere come traduzione del latino honestum (autentico) la cui radice è comune al termine honustas (bellezza). Il bonum honestum era, infatti, per i latini, e poi per gli scolastici, il bene morale, distinto dal bonum utile (l’utile) e dal bonum delectabile (il bene piacevole). Tale distinzione è fondamentale perché identificare tali accezioni del bene col bene morale (come avviene nelle dottrine rispettivamente utilitariste e edoniste) porta ad un circolo vizioso. Ad esempio sostenere che il bene utile è il bene morale presuppone una certa idea del bene morale e, quindi una certa idea di uomo, che però viene surrettiziamente sottointesa senza essere stata messa a tema. (4) Bisogna precisare che qui Rosmini, per rimanere più aderente al contesto, utilizza un’accezione del termine libertà che equivale alla libertas a choatione (libertà dall’impedimento), senza richiamare il fatto che la libertà umana ha la sua origine nelle facoltà dell’anima umana: intelligenza e volontà). Questa connotazione antropologica, e ultimamente metafisica, rimane evidentemente sullo sfondo. Classicamente, la scaturigine della libertà risiede nell’ampiezza infinita che connota l’orizzonte della ragione umana. (5) «Andate e ammaestrate tutte le genti» (Matteo 28, 19).