I salesiani, la scuola e l'industria italiana.
I Salesiani e l’industria italiana
Dalla Fiat alla Mondadori, dalla Breda alla Magneti Marelli l’industria del Nord ha sempre cercato la collaborazione dei discepoli di don Bosco per istruire generazioni di operai specializzati
di Giovanni Ricciardi
Quando il presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi fu chiamato a scegliere i nomi dei primi cinque senatori a vita, commentando alcune candidature che non lo convincevano, osservò che l’attributo della “socialità”, previsto dall’articolo 59 della Costituzione per l’assegnazione di quella onorificenza, si sarebbe meglio adattato a uomini come Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco.
Il giudizio di Einaudi non era isolato, anche se su don Bosco la cultura laica fu spesso divisa e non mancò di tranciare giudizi negativi, a dispetto della forte incidenza sociale della sua opera. Non senza un moto di fastidio, negli anni Cinquanta, Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, osservava: «Che cosa mi ha impressionato di più visitando la casa madre dei salesiani di don Bosco? Certo, i laboratori per le arti e i mestieri, dove si formano i meccanici, i sarti, i tipografi, i falegnami. È noto che gli allievi di queste scuole si distinguono nelle industrie laiche. Ma ancora di più: l’insistenza del salesiano che mi accompagna su una parola: moderno. Una delle poche parole che egli pronuncia, giacché per il resto è laconico. Moderno. Don Bosco, mi dice, è sempre più avanti di tutti, più moderno di tutti. “Moderne” le riviste di moda straniere di cui è dotato il laboratorio dei sarti. Moderna la tipografia, moderno il teatro; la sala degli spettacoli, “la più moderna di Torino”».
Nonostante la sua avversione al modello salesiano, figlio di un cattolicesimo che gli appariva integralista e “papalino”, Piovene non poteva tuttavia negargli efficienza e competitività. Le scuole di don Bosco funzionavano, negli anni Cinquanta, meglio delle altre, formando operai capaci, competenti: «buoni cittadini, onesti cristiani, abili lavoratori». Di questo modello “vincente” il mondo imprenditoriale italiano si era accorto molto presto, fin dagli ultimi anni della vita del santo di Valdocco. Anzi, secondo lo storico Piero Bairati, «il rapporto fra cultura salesiana e cultura dell’industrializzazione presenta dei connotati così precisi e, almeno per certi aspetti, originali, da costituire un capitolo di rilevante interesse nella storia della società industriale italiana». Vediamo perché.
Don Bosco giunse per gradi a creare i suoi primi laboratori artigiani tra il 1853 e il 1869. Le condizioni di disagio e di precarietà morale e materiale dei ragazzi che accoglieva all’Oratorio la domenica lo convinsero che fosse necessario insegnare loro un mestiere, in un ambiente protetto dallo sfruttamento sociale e dai pericoli cui il selvaggio mercato del lavoro della Torino di allora esponeva giovani e giovanissimi immigrati dalle campagne in cerca di fortuna.
Inizialmente, optò per quei mestieri che potessero soddisfare un “mercato” interno all’Oratorio stesso, in una prospettiva quasi “autarchica”: calzolai e sarti per vestire i suoi studenti, falegnami per costruire banchi di scuola, armadi e cattedre; infine, fabbri, quando concepì il progetto della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice.
Ma fu con la tipografia e la legatoria che il suo impegno iniziò a incuriosire – e, in parte, a preoccupare – il mondo imprenditoriale torinese. Don Bosco aveva riscosso un discreto successo con la pubblicazione delle Letture Cattoliche, la collana da lui diretta e pubblicata nei primi anni dalla De Agostini. La decisione di editarla in proprio e di pubblicare altri libri, soprattutto per la scuola, lo spinsero a profondere mezzi ed energie per fare della tipografia la punta di diamante delle sue attività.
Nei suoi laboratori si puntava dunque soprattutto a insegnare un mestiere, ma non si trascurava di scegliere settori di produzione anche sulla base di concrete esigenze del mercato locale. In questo modo, don Bosco poneva le basi di un rapporto dinamico e flessibile tra l’apprendistato da lui istituito e un mondo del lavoro che cominciava rapidamente a evolversi.
Negli anni dei primi laboratori di Valdocco l’industrializzazione italiana era ancora a uno stadio iniziale, ma l’esperienza acquisita negli anni permise ai Salesiani di non lasciarsi eccessivamente sorprendere dalla rapida accelerazione dello sviluppo delle fabbriche nell’ultima decade del XIX secolo. Essi furono così in grado di trasformare e perfezionare un modello formativo già collaudato e di mantenersi al passo coi tempi, con un vantaggio, rispetto alle istituzioni formative dello Stato, pressoché incolmabile. «Seguendo la loro linea culturale e pedagogica» scrive ancora Bairati «i salesiani finirono per svolgere numerose funzioni di supplenza proprio in ampi settori sociali e istituzionali, dall’istruzione popolare all’assistenza sociale, nei quali lo Stato liberale non aveva molte risorse da spendere, e talora, forse, non aveva nemmeno l’intenzione di farlo».
Fra l’altro, l’apprendistato nei laboratori salesiani aveva imposto fin dall’inizio una disciplina del tempo e del rispetto degli orari che era conquista affatto nuova per una forza lavoro abituata ai ritmi ancestrali della civiltà contadina. A Valdocco e nelle altre scuole di “arti e mestieri” salesiane i giovani allievi imparavano a conoscere ritmi di lavoro precisi e regolarmente scanditi. L’adattamento alla realtà urbana e la conseguente interiorizzazione di una diversa strutturazione del tempo costituirono una delle carte “vincenti” che aprì presto agli allievi salesiani le porte delle nascenti fabbriche e consentì loro di inserirsi a titolo privilegiato nel mercato del lavoro: «L’essere stati educati da don Bosco» scrive don Giovanni Battista Lemoyne, uno dei primi biografi di don Bosco, «era per loro la miglior raccomandazione per essere accettati nelle fabbriche e negli altri ufizi. I padroni venivano essi stessi a chiedere a don Bosco i giovani operai».
Un primo esempio dell’attenzione del mondo imprenditoriale per la formazione salesiana è dato dalla fitta trama di rapporti che presto si intesse tra don Bosco e la direzione torinese delle ferrovie, che costituiva nella seconda metà dell’Ottocento una delle più importanti imprese della città, e che manifestò la sua predilezione per l’assunzione di operai preparati a Valdocco.
Attraverso questi meccanismi, il modello salesiano si presentava anche come un punto di riferimento per chi desiderava una forma di elevazione sociale o, per dirla ancora con Bairati, «agiva come un moltiplicatore delle aspirazioni sociali» per gli strati più bassi della popolazione, e contribuiva a diffondere una “domanda di istruzione” ben al di fuori di quella media e alta borghesia che ne era stata fino ad allora la fruitrice pressoché esclusiva.
Diverso era allora l’orientamento dello Stato liberale. Senza intuire la domanda di professionalità diffusa che la nascente società industriale avrebbe posto, la legge Casati sull’istruzione del 1859 non prendeva neppure in considerazione l’istituzione di scuole professionali. Prevedeva invece un triennio di scuola tecnica e un successivo triennio di istituto tecnico destinati, in teoria, a formare i quadri medi della «piccola borghesia degli affari, degli impieghi e dei commerci». In teoria, perché nella realtà questo genere di scuola, non sapendo risolversi a una scelta netta tra una “cultura generale” di stampo umanistico, e un più deciso orientamento al mondo del lavoro, non riuscì a proporre un efficace modello formativo: «Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento» scrive lo storico Silvio Soldani «c’era una forte polemica sulla incapacità di queste scuole a “dare un mestiere”; si diceva che “dopo averle frequentate, al massimo si poteva fare “il fattorino telegrafico o lo straordinario in un’agenzia delle imposte”».
Don Bosco e i suoi successori avranno perciò dalla loro una formula assai più flessibile e dinamica. Osserva in proposito un altro storico, Pietro Stella: «Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra padrone di bottega e apprendisti, e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalla legge organica sull’istruzione, don Bosco preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti».
In più, don Bosco, che pure era un fiero contestatore dello stato liberale unitario, nel rapporto con la società del suo tempo non rifiutò di interagire con le concrete dinamiche politico-economiche: «Giovanni Bosco» scrive ancora Bairati «capì che in uno Stato che proclamava il valore della proprietà e dell’iniziativa privata, era necessario costituire un’organizzazione che rispettasse in pieno questo principio. Questo significava che la Società salesiana doveva reggersi soprattutto sui proventi delle scuole, dei laboratori e della produzione tipografica ed editoriale».
Grande fu, ad esempio, l’impressione prodotta dallo stand salesiano all’Esposizione Generale di Torino del 1884, organizzata dalla Società Promotrice dell’Industria Nazionale. Vi era esposto l’intero ciclo di produzione del libro nella tipografia di Valdocco. Visto il successo dell’iniziativa, eventi del genere, capaci di produrre una positiva impressione sull’opinione pubblica, furono raccomandati da don Bosco anche per gli anni a venire.
Lo sviluppo dell’industria nel nord del Paese spinse i salesiani, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a rispondere in modo più articolato alle esigenze del mercato del lavoro. Se già fin dai primi anni Ottanta a Valdocco si discuteva sul miglioramento dei laboratori delle scuole di “arti e mestieri”, nel Capitolo generale salesiano del 1886 furono poste le basi per la trasformazione degli originari laboratori in vere e proprie scuole professionali: in esse, si cercò via via di affiancare all’apprendistato un approfondimento della cultura generale, per creare figure professionali più duttili e pienamente formate. E così avvenne che, in molti casi, furono gli industriali stessi a promuovere la nascita di scuole salesiane a vantaggio della qualità del personale da impiegare.
Emblematico, a questo proposito, il caso della Lanerossi di Schio. L’imprenditore Alessandro Rossi deve aver incontrato don Bosco negli anni Ottanta dell’Ottocento, durante i suoi numerosi viaggi d’affari a Torino. Sembra che fin d’allora Rossi avesse chiesto a don Bosco di fondare un’opera salesiana nella sua città, anche se la richiesta formale dovette essere avanzata successivamente dal cugino Francesco Panciera a don Rua. È probabile che, oltre alla stima per l’educazione salesiana, giocasse un certo ruolo la preoccupazione per il diffondersi di idee socialiste all’interno di una realtà industriale in forte espansione a Schio e nella zona. Ma è altrettanto chiaro che, nella prospettiva di un rapido sviluppo industriale, l’eventuale formazione professionale impartita dai Salesiani era comunque percepita come una garanzia di serietà e professionalità d’alto livello.
La considerazione di Giovanni Agnelli nei riguardi di don Bosco e dei salesiani risale anch’essa a una frequentazione degli anni giovanili del fondatore della Fiat. «Non siamo in grado di stabilire» secondo Bairati «a quale grado di dimestichezza potessero essere giunti i rapporti giovanili tra don Giovanni Bosco e Giovanni Agnelli». Quel che è certo è che la Fiat ebbe modo di sostenere direttamente, in più occasioni, la famiglia salesiana. E non è un caso che nel 1938, accanto al nuovo stabilimento di Mirafiori allora in costruzione, l’industria torinese abbia provveduto a proprie spese alla costruzione di un istituto salesiano intitolato alla memoria di Edoardo Agnelli, prematuramente scomparso nel 1935. Scrive a proposito don Eugenio Ceria, il redattore degli Annali Salesiani: «Dovendosene trasportare la sede [della Fiat, ndr] in altra località presso il viale di Stupinigi, il valoroso industriale volle che ivi, non lungi dalle gigantesche costruzioni in corso, fosse edificato un grande oratorio festivo con pubblica chiesa per la cristiana educazione dei figli delle maestranze e un modernissimo istituto internazionale di elettromeccanica».
Altre realtà industriali seguirono poi l’esempio di Agnelli e Rossi. Negli anni Cinquanta, fu il polo produttivo di Sesto San Giovanni a richiedere esplicitamente la presenza dei figli di don Bosco. Nell’aprile del 1958 trovava compimento un progetto fortemente perseguito da Enrico Falck e sostenuto dal cardinal Schuster: un grande complesso di istituti tecnici e scuole professionali, edificato su un terreno donato dalla Chiesa ambrosiana e finanziato per metà dallo Stato e per il restante 50 per cento da un consorzio di imprese sestesi, guidato dalle acciaierie Falck, dalla Breda e dalla Magneti Marelli. Lo scopo, sintetizzava nel discorso inaugurale don Angelo Begni, era quello di «preparare maestranze specializzate, che rappresentano l’istanza più urgente e sentita del mondo del lavoro». Questo polo formativo rappresentò anche un’occasione di elevazione sociale e professionale per migliaia di operai sestesi che frequentarono in quegli anni di boom economico le scuole serali aperte per loro dai Salesiani, per poter acquisire un diploma.
Quattro anni più tardi, sull’esempio di Sesto San Giovanni, veniva avviato nella allora periferia di Verona un grande progetto per realizzare un centro di formazione professionale affidato ai Salesiani. Nel progetto intervennero il Comune con la donazione di un’area di 45mila mq, la Provincia con un notevole fondo economico e i Salesiani che recuperarono macchinari dal loro centro professionale di via Provolo. Nel 1967 al settore meccanico ed elettromeccanico si aggiunse quello grafico, grazie a una specifica convenzione fra Salesiani e l’Enipg, il noto Ente nazionale istruzione professionale grafica costituito pariteticamente dalle Associazioni nazionali sindacali dei datori di lavoro grafici, aderenti alla Confindustria e dalle Federazioni dei lavoratori grafici aderenti alla Cgil, Cisl e Uil. A livello provinciale l’Enipg era presieduto dalla Mondadori. Quello di Verona fu uno degli esperimenti-pilota di collaborazione scuola-industria-sindacato. L’Istituto San Zeno diverrà a fine anni Settanta uno dei centri di formazione professionale più moderni d’Europa. I macchinari e le attrezzature tecnologiche erano fornite direttamente, sia pure in misura parziale, dalla Mondadori e da altre industrie grafiche locali; il rapporto con loro prevedeva un continuo aggiornamento dei programmi, e lo stesso concorso per accedere alla scuola calcolava il numero degli aspiranti in base alle esigenze e alle possibilità di assorbimento dell’industria locale. Nel 1971, durante la visita del ministro del Lavoro Donat-Cattin al centro veronese, il direttore, don Silvino Pericolosi, sottolineava che gli allievi del centro erano tra i più richiesti dagli imprenditori della città: «Al termine dell’anno scolastico 1969-70, prima che gli iscritti all’ultimo anno avessero conseguito il diploma, c’erano già state 82 offerte di lavoro da parte delle ditte veronesi. Poiché i diplomati furono 70, trovarono tutti un posto senza difficoltà».
Gli esempi, più o meno significativi, potrebbero essere molti di più, dal nord al sud Italia, da Milano a Gela, passando per Roma: «Da questo punto di vista» conclude Bairati nel suo studio del 1987 su Salesiani e società industriale «ci pare da rovesciare, almeno per quanto riguarda Giovanni Bosco, il giudizio di Sergio Quinzio secondo cui i santi del secolo scorso non hanno inciso che minimamente sul grande corso della storia successiva. Al contrario, il modello culturale salesiano, pur presentando alcuni connotati che lo contrappongono recisamente ai tempi in cui è nato e si è sviluppato, ritrova poi ad altri livelli un proprio stretto rapporto con la storia della società».
Ma da dove nasceva la “modernità” di don Bosco, la sua capacità di rispondere alle esigenze dei tempi, che così strana appariva a Guido Piovene? Non certo dall’ideale di un mero efficientismo sociale o filantropico. Per il sacerdote di Valdocco, insegnare un mestiere era anzitutto un’opera di carità: dare all’uomo la capacità e la possibilità di lavorare era per lui un modo di aiutarlo a “guadagnare la vita eterna”, come spesso diceva, permettendogli di vivere onestamente e di farsi una famiglia, ed evitando che potesse prendere strade sbagliate. Ed è forse proprio a partire da qui che si può intuire il cuore dell’esperienza educativa salesiana e il motivo del suo “successo” così longevo. Non è questione di pura capacità imprenditoriale, e neppure di sola intelligenza pedagogica. Varrà allora la pena di citare, al termine di questo scritto, le parole con cui, inaugurando il Centro di Sesto San Giovanni cui abbiamo accennato, l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, il 29 marzo 1958, si rivolgeva ai ragazzi che ne avrebbero frequentato le scuole: «Che cosa pensate di tutti coloro che dedicano la propria vita a voi, senza forse riceverne ricompensa alcuna, senza forse che il loro nome non sia nemmeno conosciuto? Questo interrogativo mi richiama l’incontro con un uomo che ora vive la sua vita triste in conseguenza di essersi dato al mal fare. Avendolo io interrogato perché si fosse messo sopra una via di perdizione, ne ebbi questa risposta: “Quando ero giovane nessuno mi ha voluto bene”. Ebbene, voi non potete dire: “Nessuno mi ha amato”… Avete questi figli di don Bosco che con fedeltà continuano lo sforzo educativo del Santo della gioventù e si curano di voi e stanno al vostro fianco. Tra di voi Cristo non è morto, e nella vostra città, qui, fiorisce la carità di Cristo».
(da: 30 Giorni)
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