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Da anni sono convinto che la Chiesa cattolica stia attraversando una grande crisi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta.
Ma è solo da poco, cioè dall’elezione di Benedetto XVI, che mi trovo in spiacevole compagnia. Di coloro, intendo, che sino a ieri magnificavano una presunta “nuova Pentecoste” della Chiesa, maledicendo i “profeti di sventura” e coloro che non si accodavano al carro degli entusiasti. Ricordo di essermi sentito dire mille volte: oggi i preti sono pochi, ma buoni, non come un tempo…
Nella mia esperienza, rispondevo, accanto a quelli indubbiamente validi, conosco sempre più preti impreparati, tiepidi, conformisti, disubbidienti e che non di rado sono i primi ad amare poco la Chiesa stessa.
Ecco, oggi mi trovo a leggere che gli acritici laudatori del nuovo corso hanno cambiato idea, e, cavalcando l’onda dell’odio anticristiano, dichiarano al mondo che è tutto da cambiare. Qual è la loro ricetta? Cosa propongono e cosa sbandierano ai quattro venti, certi, a sentir loro, di fare il bene della Chiesa? Ripetono cose vecchie, trite e ritrite, le stesse che dicono da cinquant’anni, cioè dall’inizio di questa gravissima crisi: la necessità di aprire al matrimonio dei preti, al divorzio, all’aborto, ai matrimoni gay, alla contraccezione…
Poi, aggiungono, è necessaria più democrazia, abolire il primato petrino, trasformare la Chiesa in un parlamento in cui la Rivelazione sia perennemente ai voti…
Ecco, codesti venditori di monete false vogliono intraprendere la strada machiavellica della “realtà effettuale”, perché la fede, quella che “sposta le montagne” e “vince il mondo”, trasformando la realtà, la hanno persa da tempo. Per questo la loro diagnosi è errata, a differenza di quella di alcune “vigili sentinelle” che, con vero amore per la Chiesa, da anni ne hanno denunciato le ferite, le macchie, i tradimenti.
Tra codeste sentinelle vi è il gesuita Malachi Martin, già stretto collaboratore del cardinal Bea e di papa Giovanni XIII. Proprio in questa veste Martin ebbe a leggere il terzo segreto di Fatima, di cui parlai due giovedì fa, concordando con chi ritiene che esso riguardi la crisi della Chiesa iniziata negli anni Sessanta. Ebbene Martin è autore di un interessantissimo testo, I Gesuiti (Sugarco 1988), che andrebbe rispolverato. Questo libro è dedicato, significativamente, a “Nostra Signora di Fatima” e mette in luce soprattutto la disgregazione di un ordine religioso, quello dei Gesuiti, che aveva dato alla Chiesa una prova secolare di obbedienza, di coraggio e di intelligenza. Martin afferma che negli anni Sessanta molti gesuiti, col beneplacito dei loro superiori, si sono esercitati a fare a brandelli “non solo i fianchi ma anche la sostanza del cattolicesimo”.
Tra costoro ricorda George Tyrrell, Teilhard de Chardin, Pedro Arrupe e Karl Rahner, definito “l’uomo di punta dell’autocannibalismo cattolico” (a cui Giovanni Cavalcali ha da poco dedicato il suo “Karl Rahner. Il concilio tradito”, Fede & Cultura).
A questi e a tanti altri gesuiti Martin imputa di aver lottato in tutti i modi contro il cattolicesimo romano, propagandando l’alleanza col marxismo, e una nuova visione dell’omosessualità, dell’aborto, del divorzio, dell’autoerotismo, del celibato ecclesiastico e dell’autorità petrina. Alcuni di loro, racconta Martin, nella loro lotta all’Humanae vitae arrivarono a sostenere la necessità, per la miglior riuscita del loro ministero, di avere “rapporti intimi con donne senza che questi implicassero il matrimonio formale o legale”.
Così la Compagnia di Ignazio, che aveva servito tanti papi senza indugio, che aveva dato centinaia di martiri, pronti a farsi uccidere per la fede e per l’unità della Chiesa, si schierò compatto contro Roma e la sua Tradizione. Tanto che Giovanni Paolo I, il papa dei 33 giorni, aveva già pronta, prima di morire, una riforma, o, se non gli fosse stata possibile, una “liquidazione definitiva della Compagnia”.
In un capitolo intitolato “Tempesta sulla città”, Martin propone una interpretazione degli anni del Concilio: una “gloriosa confusione”, una “confusione euforica” si impadronì allora del mondo cattolico, e “tutto un mondo venne spazzato via dalla mattina alla sera”. Un giorno la gente “scoprì all’improvviso che il latino universale della messa non c’era più” e che al suo posto c’erano “una babele di lingue” e “un nuovo rito che assomigliava all’antica messa come una capanna assomiglia ad una dimora palladiana”.
“Gli altari del sacrificio furono tolti”, le statue e gli inginocchiatoi buttati, insieme alla concezione tradizionale del sacerdozio, ai voti di povertà, castità ed obbedienza, e alle tonache. Al posto delle quali comparvero “maglioni a dolcevita, pantaloni larghi, bluejeans”, “barbe, basettoni, capelli raccolti in code di cavalli”.
I riformatori avevano promesso che le innovazioni avrebbero portato a tempi splendidi; in realtà l’ ordine gesuita, che era continuamente cresciuto dopo l’inizio del Novecento, si assottigliò bruscamente, così come la frequenza della gente ai sacramenti, che diminuì in poco tempo del 30% negli Usa, del 60% in Francia ed Olanda, mentre dal 1965 al 1977 dai 12 ai 14 mila preti lasciarono il loro ministero: “la Chiesa cattolica non aveva mai subito delle perdite così disastrose in un tempo tanto breve”.
Tutto in nome dell’ “aggiornamento”, di un “parossismo innovativo” che personaggi come il cardinale gesuita Martini, incapace di leggere storia e segni dei tempi, continuano a predicare in buona, clericale compagnia. il Foglio, 3/6/2010