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L'uomo moderno tra nichilismo e speranza
Di Irene Bertoglio - 01/06/2010 - Cultura e societą - 1704 visite - 0 commenti
Il dramma attuale è che mancano dei punti di riferimento: oggi un giovane si trova disorientato nella confusione del mondo. Io stessa ho dovuto mettermi in cammino per ricercare dei maestri, delle guide, perché ero consapevole che da sola non sarei riuscita ad auto-realizzarmi. L’uomo, da solo, non è mai felice. La tentazione che la società ti infila sottilmente nella testa è che la vita vada vissuta senza troppo pensare, senza porsi degli interrogativi: siamo uomini impegnati in tante cose ma poco impegnati con la nostra umanità. Spesso viviamo le nostre giornate con una rassegnazione verminosa, con pigrizia, senza luce, senza progetto, siamo vuoti di speranza: tutti noi viviamo senza pensare al destino. La società attuale ci impone l’immagine della libertà intesa come fare ciò che si vuole, divertirsi, non riflettere su nulla. In questo imbroglio abbiamo condannato i nostri giovani; io per prima mi sono sentita imbrogliata da questa cultura. Ho sempre avvertito però un’acuta malinconia esistenziale che non mi lasciava tranquilla, un’inquietudine interiore e un desiderio struggente di risposte vere. Sono moltissimi i giovani che buttano al vento il proprio tempo e parte della propria vita: i ragazzi si accorgono che si può essere amici quanto si vuole, ma senza sapere chi seguire non si sa dove andare e anche le amicizie care mostrano un’incompletezza, una difficoltà ad andare in profondità. Quello che ho constatato, al fondo, è davvero la mancanza di un senso esistenziale, di un motivo per cui vivere. La mia generazione in particolare vive questo dramma: è sradicata, è priva di motivazioni; ci sono milioni di persone che vivono senza sapere perché vivono, che non hanno la minima certezza sul significato ultimo del vivere. La tipica immagine che mi viene in mente è quella del consumatore triste che vive nell’immediato. La causa della nostra angoscia è la perdita del significato della vita: è su questo terreno che oggi rischiamo la catastrofe. Da una parte, infatti, abbiamo una società che concepisce la vita solo in termini di funzionalità, di efficienza e di produttività, quindi una società che ci dice che l’uomo non ha sempre una dignità: l’uomo ha dignità solo nel momento in cui ha un’utilità. Sembra cioè che si voglia fare una selezione naturale delle persone: quelle “buone” le teniamo, quelle “non buone” le buttiamo via. Si vuole l’eliminazione degli “inutili”. Sentiamo spesso parlare di dignità della persona, ma sarebbe più appropriato parlare di dignità dell’uomo, da difendere sempre: «non ti ho scelto perché vali ma perché ti amo» (Deuteuronomio, cap. 7 vers. 7). Nel ‘700, l’uomo ha cominciato a sentirsi padrone di se stesso, sostituendosi a Dio; pensiamo ad esempio all’illuminismo: se la ragione non è in grado di guardare oltre se stessa diventa una minaccia. Infatti, a causa di questo ragionamento che concepisce la dignità della vita in senso discriminatorio, viene automaticamente giustificata anche la pratica dell’eutanasia come soppressione del non produttivo, mascherata con il falso pietismo. Dove si parte con l’idea che la vita sia senza significato, non ha nemmeno più senso generare dei figli; siamo infatti il Paese europeo con il tasso più basso di natalità. Pensiamo poi a come questa società guarda all’embrione umano, considerato pari a zero: ecco la pratica dell’aborto e della fecondazione artificiale, leggi che contengono una serie infinita di ipocrisie. I disastri sono iniziati quando si è deciso di sovvertire le fondamenta cristiane. Si è passati dalla filosofia rivoluzionaria anticristiana all’elaborazione ideologica e all’eugenetica attraverso quattro fasi: l’esclusione di Dio, la pretesa di essere gli assoluti padroni della vita, il rifiuto della sofferenza e la morte come unica risposta, ovvero l’uccisione come cura. L’idea eugenetica è anticipatrice dell’eutanasia, diffusa poi nel mondo libero e democratico. La morte di Eluana Englaro è l’ennesimo esempio dell’incapacità dell’uomo di dare senso alla sofferenza, al punto da volerla eliminare. Ma dal sangue dei martiri Dio ha sempre tirato fuori grandi cose. Eluana mi ricorda i martiri innocenti, i bambini che senza colpa furono uccisi da Erode. Chi è il martire? La parola deriva dal greco e significa “testimone”, colui che con la sua vita rimanda ad Altro e lo fa scoprire agli uomini: il suo regalo è quello di farci discutere sulla vita e riflettere sul Destino. Ogni seme, per dare i suoi frutti, prima deve morire. Anche la morte in Croce di Gesù sembrava una sconfitta, invece ha preparato la salvezza. L’aspetto della speranza è fondamentale per decidere come spendere la vita. La nostra è una società in cui gli individui hanno perso la speranza perché tutte queste leggi e queste pratiche sono sorrette da una concezione della vita gestita solo dal caso, e quindi insensata. Nel caso dell’eutanasia il senso della sofferenza viene completamente rimosso: ho un dolore, lo devo sopprimere non solo fisicamente, ma anche “umanamente”. Della malattia si ha paura, infatti oggi sono sempre più diffuse le indagini genetiche prenatali con lo scopo di accertare la normalità del bambino. Nel 1999 uno studio internazionale ha mostrato come il 90% circa dei bambini diagnosticati con la sindrome di down vengano abortiti. L’idea che il dolore vada rifiutato ha anche connotati positivistici e darwiniani. Anche oggi, seguendo l’insegnamento di Darwin a proposito del concetto di casualità, l’uomo moderno crede in una visione casuale della vita. Interessante è invece notare come i più grandi scienziati della storia furono aperti alla categoria della possibilità, a partire dall’uomo greco fino a Copernico, Keplero e Newton. Nella Fides et ratio è scritto: «l’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza. Soltanto la prospettiva di poter arrivare a una risposta può indurlo a muovere il primo passo». I cosiddetti progressisti ci spingono a credere che la vita non ha senso. Siccome però la natura stessa dell’uomo è fatta per questo senso e le persone hanno bisogno di spiritualità, ci si butta nelle filosofie orientali, nel New Age, nelle pseudo-religioni, per colmare un vuoto dell’anima. L’omologazione e il conformismo di massa di oggi sono funzionali al sistema, esiste un vero e proprio laboratorio di plagio che ci rende tutti schiavi inconsapevoli: bisogni e desideri mai espressi prima vengono propagandati da un piccolo gruppo di intellettuali spalleggiato dai media e diventano alienabili diritti. La mistificazione storica si infila anche nei libri di testo grazie agli insegnanti sessantottini. Ci sono tre citazioni che mi piace ricordare a proposito della sproporzione tra la nostra era tecnologica e l’ignoranza diffusa: «Dov’è finita la vostra sapienza che avete perduto sapendo?» (T. S. Eliot); «Questa è l’età dell’informazione e nessuno sa nulla» (Ben Stein); «La clonazione dei corpi è soltanto il compimento di quella delle menti» (Jean Baudrillard). Chi è fuori dal coro viene classificato come bigotto. Io sono felicemente schierata tra i bigotti. Credo che debba uscire l’uomo vero, non quello alienato dalla mentalità comune. Lo svantaggio di essere cristiani è che si è obbligati ad essere coscienti di tutto ciò che si fa. Opposta a questa visione che concepisce la vita come insensata, c’è la posizione di chi crede che la sofferenza abbia un senso: dentro a un dolore c’è la strada misteriosa attraverso cui Dio ti conduce al tuo Destino. Queste persone insegnano che nel seguire il disegno di Dio ci si realizza di più che a fare ciò che si vuole. Esse ci dicono che c’è un gusto nella vita, c’è uno scopo di tutto, un significato, e che il Mistero lo si trova dentro il disegno delle cose. Noi siamo spesso indotti al cinismo perché vediamo il male, eppure non può essere tutto qua, qualcosa sfugge alla logica inesorabile del male, un desiderio istintivo di cercare il bene. Siccome però non abbiamo risposte sicure al problema del male, perdiamo fiducia in Dio perché le cose non accadono come le vorremmo noi. I giovani, soprattutto, non sanno collocare il dolore in una prospettiva esistenziale, c’è un’incapacità di dare senso alla sofferenza. Gesù dice che la sofferenza è come il travaglio di una donna che deve partorire: è una battaglia per la vita. Il valore non è tanto la sofferenza, ma la maniera con cui può essere vissuta; se tutto andasse sempre bene, infatti, l’uomo non si porrebbe mai delle domande. Io ero curiosa di questa posizione umana così antitetica, così fuori moda e quasi paradossale. Mi chiedevo: come fanno queste persone che soffrono, magari immerse in grandissimi dolori, ad essere nonostante tutto serene? Io voglio essere come loro. Allora ho raccolto delle testimonianze di alcune persone che hanno avuto, grazie alla loro fede, la forza interiore per affermare una positività ultima. Vorrei riportarne una su tutte, un articolo pubblicato su Avvenire il 25 luglio 2008 dal titolo “Tutto le viene tolto, dal vivo della carne”. La scorsa estate, una madre olandese vide cadere dal Monte Bianco il marito e i suoi tre figli. Fu un evento che ammutolì tutta l’Italia, e anche in quel caso molti parlarono di destino crudele. Ma una voce diversa si sollevò, quella di Marina Corradi, un’amica e scrittrice cattolica: «È il più crudele dei destini, quello toccato alla donna olandese che ieri sul Monte Bianco ha visto precipitare nel vuoto il marito e i tre figli adolescenti. Un momento prima saliva con loro sul ghiacciaio, nella luce accecante di una giornata di sole. Un momento prima, era il "paradiso": la montagna, l’alba radiosa di luglio, e quei tre – un maschio e due femmine, fra i 17 e i 23 anni – che seguivano il padre, il passo agile sulle gambe di ragazzi. Forse la madre li guardava con intenerito orgoglio: sono grandi ormai, guarda come vanno su per queste cime. E forse a un certo punto avrà detto: andate voi, io non ce la faccio, mi manca il fiato. "Sono vecchia", avrà esclamato ridendo, e anche i figli e il marito avranno riso con lei, nel salutarla. La corda che legava tutti e quattro è diventata in un istante una "catena di morte". Da duecento metri di distanza, la madre ha visto. Deve avere pensato di stare sognando. Uno di quegli incubi atroci da cui ci si risveglia sudati, con un "sussulto" grato: è stato solo un terribile sogno. Ma ieri mattina sul Bianco, dopo le urla, e l’eco che ne tornava indietro nell’assoluto silenzio, più niente. Il ghiacciaio, il sole alto sulla roccia incombente, e nessun risveglio, a dire: è stato un sogno. Il più atroce dei destini, toccato in una mattina di luglio a una donna straniera venuta da lontano per amore di quel "gigante di pietra". In un secondo, tutto le è stato tolto, dal vivo della carne. E chi ascolta questa storia fatica a sfuggire alla domanda che eternamente ritorna, davanti alle sciagure più intollerabili: al dubbio del "nulla", di un Dio che ieri mattina guardava altrove, e non s’è accorto che, nello schianto di ghiaccio e sassi a precipizio nel vuoto, dietro a quei quattro rimaneva, viva, una moglie, una madre. Perché? Non c’è risposta che si possa dare a questa domanda. Noi non sappiamo. E se tentiamo di immedesimarci in quella sconosciuta, con paura pensiamo che a lei Dio, dei suoi volti, abbia mostrato il più terribile. Per quale "disegno"? Non possiamo sapere. Restiamo con le mani aperte e vuote, impotenti. Nessuna parola può bastare oggi a quella donna. È ciò che ne I fratelli Karamazov intuisce lo "starec" Zosima, di fronte a una popolana che piange il suo bambino perduto. Il vecchio monaco le ricorda che suo figlio ora è un angelo, ma la donna non smette di singhiozzare: «Ogni cosa – dice – è finita; per me è finita con tutti». E il monaco comprende che la donna non può smettere di piangere: «È Rachele che piange i suoi figli, e non può consolarsi, perché essi non sono più». «Non consolarti», le dice allora, «piangi»: «per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno, ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia». Ci sono destini dei quali non si può non piangere fino a esserne svuotati. All’apparenza crudeli come "tagliole": ti lasciano vivo, e "mutilato". Destini che ci rivelano spietatamente la nostra impotenza: e che nulla veramente, nemmeno i nostri figli, ci appartiene. La differenza sta nel come si fronteggia questa "mole" opaca di dolore. Si può esserne schiacciati, "annichiliti" da un Dio ai nostri occhi terribile e distratto. Si può voler morire, o lasciarsi morire. Oppure si può restare muti, senza capire – ciò che, oggi, ci è così intollerabile – e però disperatamente ostinati nel domandare. «Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri», disse il Dio dell’"Antico Testamento". L’"Apocalisse" sul Bianco sotto agli occhi di una madre ricorda a noi, padroni di tutto, che non siamo padroni di nulla. Eppure, nel non capire, chi crede può mantenersi "cocciutamente", audacemente certo. Certo che anche il più terribile dolore è per un bene più grande – e niente, di un uomo, è per il nulla». La persona forte accetta la sofferenza e la malattia perché ha delle certezze interiori: è veramente libero colui che accetta questo disegno. Nelle testimonianze che ho raccolto si comprende come la vita di queste persone sia tutta giocata su un fidarsi, l’esatto contrario della mia garanzia milanese. È anche la posizione di Manzoni che fa dire a Lucia: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dè suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande». Il cammino al Destino è una prova, per costruire bisogna passare attraverso la fatica. Ma c’è un punto di riferimento sicuro: la Croce, e subito dopo la risurrezione, segno della vittoria sulla morte che si contrappone alla cultura del rifiuto della sofferenza. Di fronte a queste posizioni sono rimasta colpita e affascinata, perché mi si presentava sotto agli occhi un modo di vivere più vero, che mi realizzava di più. In passato ho abbracciato il pensiero di Leopardi con la sua malinconica interpretazione della vita, che diceva che la natura è crudele, perché ci mette nel cuore un desiderio di felicità che non può essere realizzato: «a me la vita è male» (anche il bene perde di senso, perché destinato a finire). Leopardi, rispetto ai progressisti di oggi, ha comunque insita questa domanda urgente, questo grido; Montale invece è ancora più netto e afferma con amarezza l’insensatezza della vita: il significato resta per l’uomo “oltre la muraglia”, l’uomo è dunque condannato all’infelicità. Simile il pensiero di Sartre: «l’uomo è una passione inutile»: “tutto è niente” è infatti la filosofia più in voga. Credere che la vita ha valore è possibile solo se, in primis, si fa esperienza di ciò su di sé, se questa positività è vissuta nel proprio quotidiano: soltanto se sono convinto che valga la pena di vivere in ogni circostanza, bella e brutta, posso trasmettere un messaggio propositivo. Se uno non è in grado di sacrificare se stesso nelle piccole cose non può proporlo agli altri. Io lavoro come educatrice di asilo nido e ho capito che non è tanto importante il fatto di trasmettere al bambino delle nozioni, ma lo sguardo che si ha su di lui, trasmettergli che vale la pena vivere: la speranza per me è data dalla presenza stessa dei bambini; solo per il fatto di esserci sono la testimonianza di un positivo, sono tutta una domanda di senso. Se una persona crede che la vita sia un valore, sa di avere tra le mani un tesoro e lo custodisce perché cresca maggiormente, ma chi non conosce il valore di ciò che ha rischia di trascurarlo, lo sciupa. Fin da piccolo quindi l’uomo può essere educato alla speranza, può comprendere che la vita ha un senso e che c’è un disegno buono. In una lettera alla diocesi e alla città di Roma, Benedetto XVI ha affermato che la crisi dell’educazione deriva dalla mancanza di fiducia nella vita: «le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, l’immagine che essa dà di sé attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni. Rischiamo di diventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini senza speranza e senza Dio». In definitiva mi sono chiesta cos’è la speranza cristiana, perché trovare ciò che fonda la nostra speranza è fondamentale: dobbiamo trovare il fondamento di ciò che speriamo. In un’intervista a Marina Corradi, le ho chiesto che cos’è, secondo lei, questa speranza. Lei mi ha risposto: «la speranza è che tutta questa sofferenza non sia un cieco destino diretto a un nulla. La speranza inaudita è che tutto questo abbia un senso, a noi uomini difficilmente leggibile, eppure reale. È la certezza di un Destino buono che ci attende. Non siamo fatti per un nulla, la vita non è per un male». Quindi la speranza non è aspettare che succeda qualcosa di nuovo, ma è abbracciare quello che accade. La speranza è fondata su quello che già c’è. Questo non significa che la sofferenza e la morte non facciano paura, però la mia esigenza di felicità non è un’illusione. Il cuore dell’uomo è una promessa: siamo stati fatti con un cuore che è esigenza di felicità. Le ideologie, quando c’è un grande dolore, non sono in grado di sorreggere il senso della vita: quando ti è tolto tutto, ti devi legare a qualcosa che non passi. La fiducia non va riposta nelle circostanze, che sono provvisorie, ma in Cristo. La vita è bella non perché ti va bene tutto, ma perché sei accompagnato da una Presenza buona. Ne vale la pena perché il destino che ti attende è buono. Da ciò ne deriva che la speranza o è cristiana o non è speranza. La reincarnazione infatti non è speranza, perché la speranza cristiana è che si realizzino le cose indicate dalla fede. Io credo che oggi un atto di speranza sia battersi per la difesa della vita contro quella che senza retorica si delinea sempre più chiaramente come la cultura della morte. San Paolo ha detto: «siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi». Ho iniziato questo discorso dicendo che ho sentito la necessità di cercare dei maestri. Concludendo, vorrei dirvi chi sono per me i maestri: un vero maestro è colui che lancia alla speranza. Nella vita dei maestri non c’è niente a cui non attribuiscano un valore; essi aiutano a riconoscere il proprio destino in una cultura che porta a dubitare che ciascuno abbia un destino. L’amicizia vera tra le persone è allora quella che ci ricorda il pensiero della Grande Presenza. Un maestro ad esempio fu Virgilio quando ricordò a Dante il senso della vita. Fa questo ponendogli un interrogativo: «perché ritorni a tanta noia?». Nella fatica quotidiana viene infatti spesso da voltarsi dalla speranza verso il nulla. Oggi, pur non negando le difficoltà che possono presentarsi nella vita di ognuno di noi, sono vicina alla posizione di un filosofo, Kierkegaard: «Nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno». Se abbiamo fame è perché possiamo avere da mangiare; se abbiamo sete è perché l’acqua c’è; se abbiamo inciso nel cuore un desiderio di bene è perché questo Infinito esiste. Da sempre, il problema che si pone ogni generazione è quello di trovare una risposta al desiderio di felicità e di bene che l’uomo trova costituzionalmente nel suo cuore. C’è un’inquietudine che ci fa gridare che non vale la pena niente, e il rischio di questa posizione è anche quello di trasformare i giovani di oggi in spietati cinici. Questo tipo di inquietudine è una malinconia negativa, un ripiegamento su se stessi, in fin dei conti è un lamento. L’inquietudine però può anche essere il sentore di un’umanità viva: c’è dunque una malinconia che ci apre alla ricerca, ed è positiva. Dante scriveva: «Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende». I giovani d’oggi si trovano tra due fuochi, ed è questa la sfida: scegliere a chi affidarsi.
 
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