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Il ’68 e i giovani d’oggi. Ritratto della società postmoderna
Di Irene Bertoglio - 21/05/2010 - Cultura e società - 1699 visite - 0 commenti

Il panorama attuale è sconfortante, la società contemporanea ci propone una cultura contro la vita, ma proprio per questo non dobbiamo abbatterci: il pessimismo significa staticità, invecchiamento, rassegnazione. Oggi i giovani sono lasciati a loro stessi, buttati nel nulla.

Moltissimi si sentono disorientati, soli e smarriti; tanti ragazzi sembrano più vecchi degli anziani stessi: li vediamo sopravvivere senza energia, senza grinta, senza passione. Da una parte, la società non lascia spazio alla meritocrazia e non offre grandi possibilità per costruire un vero futuro; dall’altra è di moda un’educazione permissiva che evita qualsiasi sacrificio: ne deriva una generazione stanca, priva di valori, che si distrae per non pensare agli interrogativi seri della vita. L’emergenza attuale, come ha affermato anche il Santo Padre, è proprio il dramma educativo: riattivare cervelli spenti, omologati, non abituati a compiere alcun approfondimento, incapaci di formulare giudizi autonomi e di usufruire di quell’immenso patrimonio culturale e linguistico che tutti noi abbiamo a disposizione.

Possiamo dire, con Frédéric Le Play e Joseph de Maistre, che ogni nuova generazione è una generazione di piccoli barbari da educare e a cui trasmettere l’incivilimento; la moralità non è automatica, non è un progresso addizionale come quello scientifico: con ogni nuovo bimbo si riparte da zero. Ciò è possibile soltanto se si rispetta una cultura dell’educazione, un modello forte di responsabilità e di stabilità. Dobbiamo dirlo: è in atto un livellamento verso il basso, prodotto da un preciso e voluto laboratorio di plagio.

Il vero cancro è rappresentato dalla rovinosa Rivoluzione culturale del ’68, che ha scardinato ogni forma di autorità, da quella di Dio a quella del pater familias, con la tragica conseguenza che per i nostri giovani non esistono più punti di riferimento: molti padri, ad esempio, non solo non credono nei propri figli, ma, peggio ancora, non vogliono garantire loro un futuro. In termini pratici basta pensare alla riforma Dini delle pensioni, che ha svenduto la possibilità di accesso alla pensione degli anziani di domani per garantirla agli anziani di oggi. L’idea dell’autodeterminazione dell’individuo, di fatto, ha esaltato una forma di libertà distorta, distruttrice dell’autorità, del merito e della memoria storica. In tutti gli ambienti la situazione è la stessa: dalla politica all’università, dal mondo dell’associazionismo a quello sindacale, dal lavoro all’impresa, il nostro Paese manifesta sempre di più una profonda crisi strutturale.

È impossibile discutere del disagio giovanile senza fare un salto indietro per capire la radice dell’attuale degenerazione. Siamo ormai anni luce da quelle certezze incrollabili che avevano caratterizzato la società dei nostri nonni, è cambiato radicalmente il sistema dei valori che ne sta alla base: alla sicurezza della famiglia, fondata sul matrimonio come vincolo sacro, si è sostituita la precarietà delle relazioni interpersonali, giocate sul sentimentalismo più istintuale; alla fiducia riposta nella fede cattolica sono subentrate le teorie nichiliste del nuovo millennio. La “filosofia” che sottostà alla moderna concezione della vita è la presuntuosa convinzione di bastare a se stessi: si vive del principio sessantottino “vietato vietare”.

È alla luce di questa impostazione mentale che lentamente si è cercato di scardinare, con successo, il criterio della gerarchia e la presenza dell’autorità. È l’era dell’informazione, di Internet e delle Tv satellitari, ma gli italiani non leggono più e c’è sempre meno cultura: la velocità di comunicazione, d’altronde, allena a sfogliare una pagina web dopo l’altra, rendendo difficoltosa la concentrazione. Nonostante tale ricchezza di vocabolario, di Shakespeare oggi se ne vedono pochi in giro e la gente continua ostinatamente a leggere quello “povero”(1).

Ma una società che punta ad uniformare i cervelli non può che creare omologazione, menti plagiate, formattate, unanimi nel modo di vestire, nel modo di parlare, nel modo di non pensare. Quella odierna è una civiltà in cui si sostengono opinioni costruite su slogans, in cui non si hanno più proprietà lessicali, anzi, la volgarità del linguaggio domina incontrastata e dalle bocche gentili delle ragazzine sgorgano fiumi di parolacce senza filtri: la liberazione è compiuta. Il clima di libertinaggio prodotto dal ’68 non ha generato una crescita della serenità individuale, ma ha reso i ragazzi sempre più chiusi alla vita, cinici e carichi di fobie: ci chiediamo come mai questo permissivismo auspicato per noi giovani non abbia comportato, di pari passo, una proporzionale felicità interiore. Mai come in questo contesto storico si evidenzia infatti una crescita vertiginosa dell’uso di alcool e di droga, si registrano numerosissimi casi di suicidi giovanili, per non parlare dell’utilizzo degli psicofarmaci: non abbiamo più regole e siamo tristi, non è bizzarro?! «Stanco e disfatto è il mondo», scriveva G. K. Chesterton nel suo A Christmas Carol. Non si fa altro che parlare di emancipazione: abbiamo tutto, non dobbiamo più fare alcun sacrificio per ottenere nulla, ma siamo apatici e annoiati. Immersi nel niente, molti ragazzi non sanno perché vivono e vagano lungo l’esistenza senza un preciso scopo, se non quello della celebrità raggiunta senza impegno (vedi Grande fratello).

Abbandonati a loro stessi, i ragazzi si lasciano andare proprio negli anni in cui dovrebbero trasformare il mondo. E allora subentra il divertimento come alibi per non riflettere: il “mito del sabato sera” è diventato oggi il mito di tutta una vita. Pascal parlava di divertissement riferendosi a questo problema già nel ‘600: «L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie» (Pensieri, 171).

La conseguenza più evidente è il senso di smarrimento e di tristezza palpabile nel cuore di moltissimi giovani: ci si annoia perché non si hanno più scopi e contenuti da condividere. In fondo, se uno è vuoto, cosa può trasmettere agli altri? I valori, che per secoli hanno guidato i popoli più creativi e leggendari, sono oggigiorno derisi apertamente da giullari intellettuali di bassa statura, elevati a guru della società. Quest’ultima ci “insegna” che si vale tanto più se si è scaltri: essere furbi, anche a scapito degli altri, è diventato un titolo di merito; pensiamo a Fabrizio Corona che, supportato dalla pubblicità e da un seguito più che mai ignorante, ha fatto dell’immoralità il proprio personal business. La solidarietà e il bene nei confronti del prossimo non sono contemplati fra gli interessi collettivi, lo sguardo sui bisognosi e sugli anziani è quasi annullato, anzi, questi sono giudicati inutili e retrogradi, ultimo scarto di una generazione ormai mentalmente sorpassata (sono invece un enorme patrimonio, un’eredità andata persa).

Su cosa è basata la modalità di rapporto tra le persone? L’individualismo è la legge attuale: è stato spento il senso del sacro e ogni sentimento, anche il più puro, viene sporcato. Non esiste più il corteggiamento, il rispetto e quella devozione reverenziale che in passato il cavaliere mostrava alla dama: sono andate perdute le antiche forme cavalleresche tipiche dell’epoca Biedermeier. Nelle discoteche, ci si “conosce” incontrandosi sulla pista da ballo, ci si apparta come animali, senza bisogno di parlarsi.

 I preservativi sui pavimenti dei bagni tradiscono un sesso miseramente programmato: «i ragazzi non reggono il nulla in cui galleggiano. Si fanno per non pensare, per credere per una notte di essere forti, belli, importanti. Perché nessuno gli ha mai detto che lo sono davvero, importanti, e anzi unici. Perché nessuno gli ha mai detto quanto vale un uomo (e quelle corse nella notte a centottanta all’ora, ubriachi, non sono forse una sfida estrema al nulla?(2)».

Agire contro la morale sessuale sembra essere di fatto una moda comodamente accettata, ma i ragazzi nemmeno sanno che tutto è stato preventivamente pilotato: oggi chi si crede trasgressivo è in realtà il più omologato di tutti. Tutta l’attuale propaganda sulla libertà sfrenata è funzionale al sistema: l’idea del divertirsi a tutti i costi implica ad esempio il consumo smisurato dell’alcool; la Tv ci propone delle chimere, come l’apparenza e il successo immediato, ci suggerisce il disordine comportamentale: diventiamo tutti consumatori presuntuosi e il gioco è fatto. È questa la nostra idea di indipendenza?

La Chiesa cattolica aveva indicato certi dettami; noi li abbiamo rifiutati, facendo uno scambio di mentalità sociale: cosa ci abbiamo guadagnato? Ci vergogniamo di dirci cristiani, ma chiediamoci: quali sono le altre concezioni di libertà? Il problema di fondo è che l’uomo non si piega più di fronte a Dio, anzi, si dice libero, ma è schiavo dell’opinione pubblica; in sostanza la nostra società compie una diseducazione voluta, propone una vita facile, concede tutte le libertà materiali, ma non la libertà di pensare e di spiritualizzarsi. La gente subisce i concetti, perdendo la verticalità della vita. Il modello che ci stiamo proponendo è sbagliato: è il modello dell’uomo consumatore e omologato che quando non consuma va eliminato con l’eutanasia infarcita di pietismo! Il nostro non è più un popolo unito da un Ideale, ma una massa di individui surrogati; non è più una comunità, ma solo una società, un involucro colmo di monadi isolate: Bauman parlerebbe di società liquida e del resto il XLI Rapporto Censis conferma questa tendenza anche in Italia(3).

Noi ci prefiggiamo lo scopo di uscire dalla mediocrità delle idee preconfezionate per poter creare un presente degno della nostra portata umana. Vogliamo farlo senza presunzione, convinti che i maestri siano di vitale importanza: bisogna costruire partendo dalle radici storico-culturali, avendo come bussola orientativa la nostra tradizione. A voi giovani, da giovane, grido: non viviamo le giornate come vegetali, ma impegniamoci, lavoriamo. Come ci propone saggiamente Seneca, «la vita è lunga se è piena»!

 
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