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Opporsi all’aborto non significa tanto avversare una pillola, quanto piuttosto una mentalità: sotto la spinta del ’68 e del femminismo, ideologie figlie della rivoluzione, la donna in Occidente si è livellata, si è abbassata a imitare l’uomo, spogliandosi della propria essenza.
La questione dell’aborto è strettamente connessa alla riflessione sulla donna: è necessario allora interrogarci su quale sia il suo ruolo, per non cadere nel pericoloso errore di considerare l’omicidio del proprio bambino come un diritto inalienabile. Il femminismo, che negli anni Settanta si connota come movimento per la liberazione di genere a fianco della sinistra, rincorrendo una sterile uguaglianza, ha fatto sì che la donna tentasse di appropriarsi di caratteristiche maschili, deformando la sua naturale originalità.
Le donne, che un tempo erano le paladine dell’amore, sono diventate così le paladine di un’uguaglianza astratta. Possiamo identificare un presupposto filosofico del femminismo nel relativismo, che afferma come la verità delle cose non sia conoscibile: se non è possibile conoscere il bene né i valori in modo oggettivo, le scelte sono inevitabilmente determinate dagli orientamenti soggettivi e dalle circostanze. Si impone allora la libertà assoluta: alla volontà individuale della donna deve essere riconosciuta una priorità rispetto al feto, considerato un elemento di disturbo per l’autonomia stessa della madre.
Da questa convinzione si è sviluppata poi anche l’ideologia di genere: gli esseri umani nascono senza orientamento sessuale, che dipende invece dalla cultura. Ognuno può scegliere la propria sessualità: una delle battaglie del fronte femminista è infatti proprio l’equiparazione delle unioni di fatto – anche omosessuali – al matrimonio. L’obiettivo è quello dell’uguaglianza a tutti i costi e la cancellazione, forzata e innaturale, delle diversità di funzione, allo scopo di riequilibrare i rapporti di potere.
Alla condizione “snaturata” della femminilità si somma il venir meno della funzione del padre, che lascia spesso la donna in uno stato di massima libertà, cioè paradossalmente di massima solitudine esistenziale. Il problema dell’aborto è infatti concepito da gran parte della società come una questione esclusivamente femminile, dalla quale il padre è completamente escluso. Egli non è l’unico a non avere diritti: anche il concepito viene rimosso dalla sfera della decisione, che spetta soltanto alla madre. Il problema viene spostato dal rispetto della vita del bambino al diritto della donna di scegliere.
Oggi l’uomo non può incidere sulla scelta dell’aborto proprio perché si è affermata questa idea dell’autodeterminazione della donna, secondo cui questa deve avere l’assoluto controllo della gravidanza. Ma quando la soppressione è considerata, come accade oggi, un servizio dovuto e un esercizio di libertà, tutto è stravolto nelle sue fondamenta e anche la famiglia comincia a essere inesorabilmente concepita come una forma di schiavitù e di oppressione per la moglie che, secondo il pensiero femminista, desidera svincolarsi dal ruolo domestico per rivolgersi a quello pubblico, generalmente esercitato dall’uomo: la triste conseguenza è che la maternità viene intesa solo come gravidanza.
È infatti davvero raro che oggi ci si soffermi sul percorso psicologico emotivo della donna, preso in considerazione solo nel caso in cui avvengano interventi terapeutici. Quest’immagine della maternità è limitativa, in quanto il fondamento di ogni rapporto è l’amore e la persona si realizza soltanto nella misura in cui ama. La relazione materna è il prototipo dell’amore: la madre raduna tutte le sue ricchezze personali per donarle al bambino. Oggi invece tutto viene medicalizzato e la gravidanza assume le forme di una malattia. La liberazione richiede allora il controllo assoluto del corpo, della sessualità e dei mezzi per regolare le nascite, tra i quali l’aborto. Ma quando, tramite l’aborto procurato, il meccanismo di fiducia con la vita viene interrotto, si apre una ferita, un grido di un’umanità violata.
Non si può infatti apprezzare la vita dell’altro quando la si sopprime dentro di sé, come affermò anche Madre Teresa di Calcutta: «Se continuiamo a sostenere l’aborto, come possiamo pretendere che non si faccia la guerra?». Ci si è dimenticati che uno dei principali compiti e doni della donna è proprio quello di dare e saper dare la vita. Se siamo oggi il primo Paese europeo per eccellenza in quanto a denatalità, lo dobbiamo anche a questo: generare figli, nel clima sociale venutosi a creare, accentuato poi dalla recente crisi economica, non ha più senso e non rappresenta più l’ambizione di giovani coppie, blindate dall’egoismo e chiuse alla possibilità di una nuova vita. Inoltre, la profonda crisi del sistema politico, costantemente alla ricerca di elettorato e di consenso, dominato da un populismo che non cerca di orientare coscienze ma che insegue solo voti facili, ha spinto la politica a fare scelte troppo spesso orientate ai bacini più diffusi di elettorato: in un Paese in cui la popolazione over 50 rappresenta la fetta più ampia, la ricerca del consenso spinge sulle leve dell’assistenza sociale e del sistema pensionistico, non certo su quello della promozione della natalità.
È la conseguenza logica di una società che ha perso coscienza dei propri valori, che non valorizza più la vita e nella quale, sopra ogni cosa, il popolo sembra assopito di fronte ad una piaga tanto devastante come quella dell’aborto. Quest’ultimo, considerato un omicidio già dai tempi di Ippocrate, è dapprima diventato, con la legge 194, male minore, per essere oggi considerato un vero e propro diritto. Da donna ritengo invece che la legge sull’aborto non solo non sia una conquista di civiltà, ma che umilii la dignità stessa della donna. Su cosa consisterebbe, infatti, questa libertà? La tanto ambita autodeterminazione altro non è che la possibilità di uccidere legalmente i propri figli.
Con la pillola RU-486 la liberazione è compiuta: ha vinto il fronte nichilista e anche in Italia sarà possibile eliminare il proprio bambino ingerendo una pillola, un farmaco che condanna la madre ad abortire in solitudine, scaricanmdole addosso tutta la responsabilità e il peso di una morte innocente. C’è dell’altro. La kill pill, com’è stata ribattezzata, talvolta uccide anche le donne che vi ricorrono: è la stessa azienda produttrice di questa pillola, la francese Exelgyn, a parlare di 29 decessi riconducibili alla sua assunzione.
Guarda caso, in America, già nel lontano 1991, J. G. Raymond, R. Klein e L. J. Dumble, tre femministe dichiaratamente abortiste – e pertanto non sospettabili di simpatie clericali – denunciarono la RU-486 e le sue pesantissime ripercussioni sulla salute delle donne, tra le quali ricordiamo: dolore o crampi nel 93,2 % dei casi, nausea nel 66,6%, debolezza nel 54,7%, cefalea nel 46,2%, vertigini nel 44,2% e perdite di sangue prolungate fino a richiedere una trasfusione nello 0,16% dei casi.
E fu sempre una donna, Donna Harrison, ricercatrice e ginecologa di Berrien Center, in Michigan, a pubblicare uno studio nel quale ha identificato ben 637 casi di effetti collaterali nell’uso della RU-486. Addirittura, nel dicembre 2005, un editoriale del “New England Journal of Medicine”, “bibbia” mondiale della scienza, denunciava una percentuale di mortalità con il metodo chimico della Ru-486, ben 10 volte più alta di quella rilevata con il metodo chirurgico. Pensare che in Italia si proclama che quello della pillola sia un metodo meno invasivo! È evidente come dietro la commercializzazione di questo farmaco vi siano, prima d’ogni cosa, interessi economici ben precisi; basti pensare che era stata inventata per curare una disfunzione della ghiandola surrenale ma, non funzionando, è stata convertita dalla casa produttrice in facilitante abortivo. Che l’aborto sia privo di conseguenze e di dolore è la grande bugia che i suoi sostenitori perpetrano nel tentativo di non mettere in discussione le ragioni politiche della loro battaglia per la legalizzazione. Ma anche se la comunità scientifica mondiale smentisce quotidianamente queste posizioni, abortisti e femministe negano i risultati di studi, ricerche e statistiche. La parola d’ordine è eliminare ogni informazione sul dolore fisico e psicologico post-aborto; nascondere tutto ciò che potrebbe indurre perplessità sul consenso all’aborto di una donna.
Così, chi si proclama difensore della libertà di scegliere è semplicemente libero di nascondere e chi omette quelle informazioni plagia una donna libera e sceglie al suo posto. Quest’ultima ha invece il diritto di essere informata sui rischi per la propria salute riproduttiva e psicologica. Il vero diritto da difendere è il diritto alla conoscenza delle patologie fisiche e mentali connesse ad una interruzione volontaria di gravidanza. Il femminismo pro-aborto, che sostiene di difendere e promuovere i diritti della donna, di fatto compie su di essa un abuso pesantissimo. La tragedia dell’aborto lascia nell’animo femminile tracce indelebili, ferite aperte nella memoria e nella sfera sentimentale, spesso addormentate, ma profondamente irrisolte, che anche a distanza di anni irrompono prepotentemente nel presente attraverso patologie psicologiche di varia natura.
Noto è il caso della Christchurch School of Medicine in Nuova Zelanda che, partendo da uno studio per dimostrare l’assenza di conseguenze psicologiche della pratica dell’aborto, è giunta a conseguenze diametralmente opposte: dall’analisi dei risultati statistici è risultato che le donne che hanno avuto un aborto hanno quasi il doppio della probabilità di sviluppare malattie mentali e fino al triplo di diventare alcolizzate o tossicodipendenti.
Questo studio, confermato successivamente da un altro, analogo, dell’università di Otago e pubblicato dal “Journal of Child Psychiatry and Psychology”, ha riscontrato l’insorgere di tendenze suicide, consumo di droghe, depressione e ansia patologica. Dati che trovano riscontro in tantissime altre pubblicazioni scientifiche: una media fra i risultati di tre diversi studi sugli effetti dell’aborto in USA, UK e Finlandia (pubblicati rispettivamente da l’ "Archives of Women’s Mental Health”, il “British Medical Journal” e dagli “Acta Obstetrica et Gynecologica Scandinavica”) evidenzia un’incidenza di aumento nei tassi di suicidio sopra al 300%. Ci sembra un dato che smentisce categoricamente la credenza che l’aborto sia una scelta sicura. Non ci sono prove che una gravidanza indesiderata possa aumentare il rischio di depressione o altri problemi, mentre è certo che l’aborto abbia conseguenze devastanti. Gli studi in materia mostrano come le donne che si sono sottoposte a questa tragica pratica ricorrano a cure psichiatriche fino a quattro volte di più rispetto a donne che hanno concluso serenamente la gravidanza.
Sono vittime di psicosi depressive, reazioni di aggiustamento, disturbi neurologici e bipolari. E secondo l’”American Journal of Drug and Alcohol Abuse British Medical Journal”, le donne che hanno abortito sono 4,5 volte più portate alla tossicodipendenza e all’alcolismo. Il dr. Vincent Rue (direttore dell’Institute for Pregnancy Loss in Jacksonville, Florida), in uno studio volto a riassumere le conseguenze traumatiche post aborto negli USA, ha riscontrato questi disturbi presentarsi mediamente nel 50% delle donne che hanno avuto un aborto: incubi e ossessione, flashback, pensieri suicidi riferiti direttamente all’aborto, sfiducia in se stesse, sensi di colpa, timori per future gravidanze, sensazione di disagio vicino ai neonati, insensibilità emotiva, disfunzioni sessuali, disordini alimentari, aumento del consumo di tabacco, attacchi di panico e di ansia, relazioni conflittuali.
Parlare di aborto vuol dire allora affrontare anche l’angoscia che affligge la società d’oggi. Non è un fatto individuale, ma riguarda l’intera collettività. La gente non vuole soffermarsi sulla problematica per nascondere l’evidente disagio di un comportamento egoistico contro natura. Negli USA il 77% della società ritiene che l’aborto sia la soppressione di un essere vivente, ma la maggior parte della stessa opinione pubblica è favorevole alla legalizzazione dell’aborto, almeno in certi casi. Pur riconoscendo il profondo turbamento morale provocato da questo atto, si reagisce negando il dolore che ad esso consegue. L’influenza culturale dell’ondata femminista si ripercuote nei giorni nostri minando seriamente l’ossatura della nostra società, anche confondendone i ruoli: non più padri, non più madri, non più educatori.
La dittatura consumistica ha comportato il dilagare della pornografia e l’aumento della prostituzione, delle violenze sessuali e degli stupri, derivati proprio dalla concezione che si ha della donna. A ciò si aggiunga l’annullamento della famiglia, la mancanza di validi punti di riferimento e il morbo del nostro tempo, la depressione, che colpisce soprattutto il gentil sesso. Fondare il rapporto uomo/donna solo sui diritti e sul potere significa non avere nessuna stima dell’identità femminile, il cui principale compito è quello di dare la vita: in questo orizzonte culturale in cui la libertà ha cambiato connotati, la vita non ha più senso. Il laicismo, il relativismo e il nichilismo hanno portato all’annullamento dei valori e dello spirito ed è da questa constatazione che bisogna ripartire: siamo vuoti a livello di spiritualità. La donna deve rivedere i propri parametri, tenedo presente che uomini e donne hanno un destino molto diverso e che avere una diversa funzione non significa avere diversa dignità.
Uomini e donne non sono uguali: la natura ci è data, non la creiamo noi. Accettare questo è, per l’uomo moderno, il primo passo per rispondere al bisogno di felicità che c’è nel suo cuore. Non occorre dunque ricercare un’uguaglianza innaturale con l’uomo, ma esaltare le differenze e la femminilità. Spetta alla donna rivalutare le proprie peculiarità specifiche, che hanno consegnato alla storia tante illustri eroine, scrittrici e sante. Per recuperare la dignità di donne, dobbiamo riprendere in mano la grande questione dell’amore, nulla è infatti così sacro come l’esperienza della maternità: tutto è per l’altro, fino al sacrificio della vita. A quel punto, non ci sarà più bisogno di nessuna pillola.