Calcio, senza autocritica non si può ripartire
Giocare. Nell’aria c’è una gran voglia di giocare. Certo non puoi scrollarti dai tacchetti il feretro di Filippo Raciti, l’agente trucidato a Catania. E neanche quello di Ermanno Licursi, il dirigente della squadra calabrese della Sammartinese ammazzato a pedate, rimasto nella penombra perché in terza categoria le telecamere sono spente. Voglia di giocare: per scrollarsi di dosso l’incubo e tornare ad essere normali; e perché il piatto piange e la quarta industria del Paese non può tener chiusi i battenti troppo a lungo. Una voglia di giocare – dispiace doverlo constatare – ben più forte della voglia di mettere un punto fermo e andare a capo. Una voglia di giocare che potrebbe far perdere all’Italia l’occasione per una svolta epocale.
Ieri è stata la giornata di Giuliano Amato. Va apprezzato, il nostro ministro dell’interno, non solo per la sua intransigenza («Lo spettacolo non può continuare a questo prezzo, anche se si tratta dello sport più lucrativo del mondo»), ma soprattutto per l’autocritica, non di maniera ma autentica. «Anch’io ho sbagliato – ha ammesso – nel permettere le deroghe al decreto Pisanu». Ci piacerebbe che tutti prendessero l’esempio perché nessun rinnovamento profondo può ignorare l’ammissione delle colpe e l’assunzione delle responsabilità. Noi tifosi siamo stati reticenti; abbiamo tollerato la beceraggine degli ultrà amici indignandoci per quella altrui; e mai s’è visto un lanciatore di monetina, fumogeno, bottiglietta preso, impacchettato e consegnato alla polizia dei vicini di gradinata. Macché, omertà idiota innanzitutto. Noi giornalisti abbiamo strillato troppo, solleticando gli umori peggiori del peggior tifo. I calciatori hanno flirtato con gli ultrà facinorosi pur di tenerseli buoni, ignorando la lezione della vita, e della storia: prima o poi certe “amicizie” le paghi, e con gli interessi. I dirigenti, spesso, hanno più che flirtato. Ma soprattutto hanno eluso le regole facendola franca: iscrizioni irregolari al campionato, fideiussioni fasulle, passaporti falsi, bilanci taroccati, fondi neri… Bell’esempio davvero. Chi non rispetta le regole non è più credibile e non può pretendere di imporle agli altri. La politica ha spesso fatto il tifo, a volte latitato, sovente badato al business dei presidenti amici e al voto degli elettori tifosi.
Amato punta agli stadi. Se non sono a norma, niente pubblico. Giusto. Restano però dubbi pesanti. Perché lo stadio è solo un contenitore. Nessun contenitore è neutro e uno stadio brutto, scomodo, insicuro favorisce la violenza. Ma il contenuto? Gli spettatori? Le loro teste e i loro cuori? Se davvero si riparte domenica, con molti stadi chiusi, al pubblico dovrà essere spiegato perché l’Olimpico di Roma è sicuro mentre gli stadi del Chievo e dell’Udinese, i più tranquilli della penisola, sono vietati. E già a qualcuno, assai poco responsabilmente, stanno saltando i nervi. Ad esempio ad Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli e di quei napoletani che non hanno certo bisogno di incoraggiamento per eccitarsi: «Porte chiuse al San Paolo? Questo è fascismo». Stiamo freschi.
L’esempio di Amato va seguito, ma fino in fondo. Occorre un gigantesco mea culpa e una colossale assunzione di responsabilità. Solo dopo si potrà ripartire, fedeli alle regole. Quelle che politica e società di calcio ribadiranno o scriveranno ex novo. E quelle che sono già scritte dentro di noi, abbiamo dimenticato ma basterebbero: onestà, lealtà, rispetto. Roba vecchia, mai così nuova.
(da "Avvenire", 7 febbraio 2007).
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