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Scuola e libertà in Guareschi
Di Paolo Zanlucchi - 04/02/2007 - Scuola educazione - 1977 visite - 0 commenti

Riproporre oggi alcuni pensieri tratti da “Lettera al postero”, di Giovannino Guareschi, pubblicata su Candido numero 51, del 16 dicembre 1956, può apparire operazione anacronistica solo nelle apparenze. In un periodo storico, politico e culturale come quello in cui ci è dato di vivere, non possiamo che trovare straordinariamente profetiche le parole che mi permetto di presentare qui di seguito. Spunti per una riflessione costruttiva, seppur amara, dovendo constatare come l’utilizzo della scolarizzazione di massa, in atto a partire proprio dagli anni appena seguenti questa lettera, attuata da tutta l’area marxista, complice anche una certa miopia culturale e politica cattolica,  ha portato il nostro Paese ad una omologazione dei pensieri attuata anche attraverso la scuola, e oggi anche attraverso l’università, mediante l'adozione di libri di testo ideologizzati, se non tendenziosi e docenti “votati alla causa”. Ironia della sorte, Guareschi morì proprio nel “formidabile” 1968, e da allora è un susseguirsi di riforme scolastiche farraginose, l’ultima ancora tutta da verificare sul campo, del Ministro Fioroni, purtroppo ancora troppo infarcita dirigismo statalista, che ripropone, tra le altre cose, la commissione d’esame mista fra docenti interni ed esterni, ma non incide sulla valutazione della qualità dell’insegnamento e nemmeno sulla serietà della preparazione effettiva finale dell’alunno. Aumenterà, invece, il carico di lavoro burocratico dei docenti impegnati nelle commissioni, con la conseguenza di, per citare Guareschi, “Non dire mai con quattro parole ciò che potresti non dire con tremila. Il paradosso serva a chiarirti il concetto: l’italiano preferisce parlare piuttosto che dire”. Veniamo dunque al racconto di Giovannino Guareschi, che rivolgendosi al suo immaginario “postero”, ad ognuno di noi quindi, genitori, insegnanti, studenti scrive: Un tempo si diceva: “Chi comanda fa legge”. Oggi, con maggior precisione, si dovrebbe dire: “Chi comanda fa Regime”. E’ l’eterna storia di chi, arrivato al posto di amministratore, tende a diventare padrone. Mentre il Partito che ha espresso il Governo tende a identificarsi col Paese, il Governo tende a identificarsi con lo Stato. Gli Enti statali, parastatali, criptostatali, nazionali e paranazionali creati dal Governo e diretti e dominati da uomini fidati del Partito funzioneranno da legame fra Stato, Governo e Paese-Partito. Il gioco è fatto. Naturalmente, postero diletto, io non ti ho parlato da tecnico: l’operazione è più complessa. E, quando il Regime è instaurato, ha bisogno di farsi le ossa. Orbene – ed è questo il punto – ogni Regime si fa le ossa rompendo le ossa degli altri. Se si tratta di un Regime sul tipo delle cosiddette repubbliche democratiche orientali, entrano in azione la polizia politica, i carri armati, la statizzazione integrale e via discorrendo. Se si tratta di un Regime a sfondo democratico occidentale, si usano armi di altro genere e l’azione si sviluppa nascostamente e senza strepito.

In ogni tipo di Regime, comunque, si pone la massima diligenza nell’annientare il nemico numero uno della dittatura: l’individuo. Si tende a spersonalizzare l’individuo, a fare di esso un semplice elemento della mandria, o massa o collettività. Si tende cioè a svuotare l’individuo del suo contenuto personale. Postero mio, figurati che la nazione sia un immenso frutteto con alberi di centomila specie diverse: alberi teneri e giovani, alberi vecchi dalla corteccia dura. Cambia il padrone del frutteto, e il nuovo padrone dice: “L’avvenire del frutteto è nelle pesche. Da oggi in avanti voglio solo pesche”. Tutto va bene per i peschi giovani e vecchi che sono nati, appunto, per produrre pesche. Ma per i peri, i meli, i ciliegi e le altre piante la faccenda si complica. I vecchi peri, i vecchi meli, i vecchi ciliegi non possono obbedire e continuano a produrre pere, mele, ciliegie. Si comportano come irriducibili sovversivi e il padrone non può tollerare un fatto del genere e, allora, o li sradica, o li pota barbaramente in modo da renderli improduttivi; o ne avvelena le radici. Il padrone elimina o neutralizza i vecchi alberi soltanto; per giovani, invece, ricorre all’innesto. Ciò è contro natura perché il pero, il melo, il ciliegio non sono nati per produrre pesche, ma il padrone non ammette indisciplina: o rinnovarsi o morire. Non so se la mia similitudine sia molto felice: comunque, apprezza lo sforzo che ho fatto per rendere l’idea. Ora, postero diletto, metti nel frutteto, al posto degli alberi, altrettanti individui: al posto del padrone metti il Regime e arriverai a comprendere probabilmente il problema della spersonalizzazione. Naturalmente, e ciò dispiace molto ai Regimi, trattandosi di uomini, non è possibile tagliare a un tizio la testa, innestandogliene sul collo un’altra. E poi, mentre, anche se l’albero è giovane, è facile stabilire se esso sia un pesco, o un melo, o un pero, o un ciliegio, è difficile stabilire che tipo di testa, di pensieri e di tendenze abbia un giovane. Occorre, allora, una diligente e acuta indagine da compiere caso per caso. E il compito delicato viene affidato alla Scuola che, essendo di Stato, deve funzionare come qualsiasi altra azienda del Regime. I giovani interessano e preoccupano sopra ogni altra cosa i Regimi. I giovani sono pericolosi: le loro reazioni – non ancora sufficientemente controllate da quel senso dell’opportunismo che frena gli impulsi degli uomini maturi – sono pericolose. (…) Ogni Regime ha paura dei giovani e ai giovani rivolge le più attente cure attraverso la Scuola, gli enti parascolastici, le organizzazioni politiche, parapolitiche e criptopolitiche assistenziali e psuedobenefiche, sportive e pseudosportive. Ma la Scuola è lo strumento più efficiente e più importante, perché ha un doppio compito: svuotare il ragazzo eliminando in lui ogni fermento nocivo o sovversivo per poi riempirlo di idee e propositi conformisti. La Scuola, sotto ogni Regime, è destinata a divenire la Grande Pianificatrice dei cervelli. La Fabbrica dei Cretini. Parole certamente dure, velate di amarezza, che risentono del clima politico del tempo, i carri armati del Patto di Varsavia erano ancora agli angoli delle strade di Budapest, ma che non possono non colpire per la loro lucidità e attualità. Proseguendo nell’analisi dell’opera, mi permetto di proporre ancora un paio di pensieri del grande scrittore “della Bassa”. Cerca fuori dalla scuola gli ammaestramenti per la vita. Ai miei tempi, era in grande auge il cosiddetto tema di fantasia: esso è oggi schifato.“Lavorando di fantasia il ragazzo non impara a osservare, si distacca dalla realtà”, dicono i tecnici. “Niente più finzioni”. La verità è un’altra: chi lavora di fantasia non osserva ma pensa. La fantasia è la palestra del pensiero e i Regimi non vogliono gente che pensa. Vogliono uccidere la tua fantasia, postero diletto: questa è la sostanza. La fantasia è reato: quando tu racconti a te stesso una storia fantastica della quale tu sei il protagonista tu esperimenti la tua personalità. Figlio mio, tu sei chiuso dentro una esigua stanza assieme alla tua bicicletta: fin quando quei quattro muri ti terranno prigioniero, tu non potrai mai provare – pedalando –l’efficienza dei tuoi garretti. La potrai provare avendo a tua disposizione, tutta per te, una pista. La fantasia ti offre lo spazio e l’aria che ti sono necessarie. La fantasia è la palestra del pensiero e della personalità: e il Regime vuole, uccidendo la tua fantasia, mortificare, comprimere, contenere la tua personalità.

Prosegue ancora Guareschi, con quell’ironia e con quel realismo inconfondibili, riflessi di un animo profondamente cristiano, autentico; i pensieri che seguono non possono non far riflettere, da un lato, i docenti che, nonostante tutto, si trovano ancora ad amare il proprio mestiere, accettando e tentando di vincere (o almeno a non perdere) ogni giorno la sfida dell’educazione; dall’altro mi auguro che qualche studente faccia proprio l’invito, la preghiera che uscì oltre cinquanta anni fa dalla penna del grande scrittore emiliano. Difenditi, postero mio. Diffida di tutto quello che a scuola t’insegnano. Anche dello stesso Teorema di Pitagora. Controlla pignolescamente se il Teorema di Pitagora che t’insegnano funziona come il Teorema di Pitagora che insegnavano cinquant’anni fa. Impara a detestare, nel tuo intimo, tutto ciò che è collettivo. Collettivismo significa umiliazione dei migliori ed esaltazione dei peggiori. Il collettivismo è per i vili che vogliono sottrarsi alla responsabilità individuale per rifugiarsi nell’ombra della irresponsabilità collettiva. Difenditi e reagisci.

 
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