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Come il comunismo produsse milioni di orfani (III)
Di Francesco Agnoli - 22/03/2010 - Storia del Novecento - 1604 visite - 0 commenti

La cultura e le leggi bolsceviche che avrebbero dovuto portare alla “liberazione della donna”, magari contro la “sessuofobia cristiana”, causarono, come si è visto, la disgregazione della società, il boom degli infanticidi e degli aborti.

Tanto che i paesi comunisti, dal Vietnam alla Cina, da Cuba alla Federazione russa, mantengono ancor oggi il triste primato degli aborti nel mondo. Ma non è tutto: anche i bambini già nati furono vittime, in massa, dell’ideologia. Riguardo alla famiglia, infatti, all’inizio della rivoluzione comunista si sostenne che la lotta tenace al matrimonio religioso, il lavoro obbligatorio per le donne e l’intervento dello Stato per sollevare i genitori dal “fardello dell’educazione dei figli”, avrebbero portato ad una società armoniosa e felice. Alexandra Kollontai, in due discorsi del 1921, aveva infatti dichiarato: “Nella Società Comunista la donna non dovrà passare le sue scarse ore di riposo in cucina, perché esisteranno ristoranti pubblici e cucine centrali in cui si darà da mangiare a tutti…”; neppure sarà più necessario che le donne facciano le pulizie in casa, visto che ci penseranno persone stipendiate ad hoc dallo Stato.

 Inoltre il “focolare domestico” verrà sostituito dal “focolare comunitario”, il matrimonio indissolubile, “una mera frode”, dal “diritto alla felicità” per gli amanti; le case comuni prenderanno il posto degli alloggi privati, e la famiglia sarà sostituita, nell’educazione dei figli, dallo Stato. Così “l'uomo nuovo, della nostra nuova società, sarà modellato dalle organizzazioni socialiste, dai giardini d'infanzia, residenze, asili per bambini e molte altre istituzioni di questo tipo, in cui il bambino passerà la maggior parte della giornata e in cui educatori intelligenti lo trasformeranno in un comunista cosciente”.

“Non temete, continuava, per il futuro di vostro figlio. Vostro figlio non conoscerà il freddo e la fame. Non sarà disgraziato, non verrà abbandonato alla sua sorte come accadeva nella società capitalista. Non appena il neonato viene al mondo, lo Stato della classe lavoratrice, la Società Comunista, assicurerà al figlio e alla madre una razione per la sua sussistenza e una sollecita cura. La Patria Comunista crescerà, alimenterà ed educherà il bambino” e la famiglia non sarà più necessaria, ma al contrario “dannosa e inutile”, visto che “la donna che ha nutrito il suo bambino al seno ha assolto verso di lui il suo dovere sociale”.

Eppure, proprio in uno di questi discorsi, dopo aver ricordato che finalmente nel 1920 dodici milioni di cittadini, “bambini compresi”, hanno mangiato nelle mense pubbliche, e dopo aver stigmatizzato come “lavoro improduttivo” “la cura della casa e la cura dei bambini”, la Kollontai notava più volte che “in Unione sovietica, ahimè! il numero dei bambini abbandonati dai loro genitori non smette di crescere”. Cosa succedeva? La mentalità imposta dai bolscevichi, il matrimonio minimale, senza “formalità”, senza sacralità e quasi senza cerimonia, il cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di una o due settimane al massimo” (sfruttato al volo da molti mariti), l’insistenza sulla morte della famiglia, il “doppio fardello” per le donne (lavoro e maternità), si sommarono alla povertà determinata dalla guerra civile, dall’economia statalizzata e dalle carestie provocate, e portarono milioni di russi a smarrire il senso della genitorialità, all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad abbandonare i figli o allo Stato o sulla strada. Gli storici sono concordi: fu un fenomeno spaventoso, di proporzioni inaudite!

In breve la Russia fu strapiena di “besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di nessuno: si parla di 7 milioni di bambini nel 1922! A quelli abbandonati per i motivi suddetti, per il venir meno della famiglia minata culturalmente, politicamente, economicamente, infatti, bisogna aggiungere tutti i figli dei perseguitati politici: nella Russia comunista le mogli dei “traditori della patria”, ma spesso anche le mamme e le sorelle, venivano internate in appositi gulag, mentre i bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi in quelle che dovevano essere le “splendide” scuole pubbliche, sostitutive dei genitori, e che divennero invece gli immensi orfanotrofi-lager che disseminano ancora oggi l’est post-comunista.

 A prendersi “cura” dell’emergenza fu incaricato il terribile Dzerzinskij, il capo della Ceka, determinando tra il resto il fatto che questi istituti sovraffollati di bambini disperati divennero talora veri e propri vivai per la polizia segreta di Stalin, capaci, sovente, di ferocia senza pari. Nel 2007 in Russia vi erano ancora circa 5 milioni di bambini abbandonati. Qualcosa di molto simile alla situazione di altri paesi comunisti, in cui la disgregazione familiare era stata considerata propedeutica ad una maggior libertà dell’individuo ed alla creazione di veri cittadini, fedeli solo allo Stato e alla collettività.

Nella Cina di Mao e nella Cambogia di Pol Pot, per esempio, voler dormire a casa, dimostrare attaccamento per la moglie o i figli, tributare culto ai familiari defunti, costituirono motivi di sospetto. Si veniva incolpati di “mettere la famiglia al primo posto”, di porre in dubbio la capacità del Partito di provvedere ai cittadini, di avere ancora “inclinazioni individualiste”, di essere troppo legati a “sentimentalismi” ed egoismi piccolo borghesi. Con esiti simili a quelli russi: una massa immensa di aborti, infanticidi e orfani nelle strade. Continua (Il Foglio) 

 
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