Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Esiste un punto di contatto, solo un istante, punto dal quale si genera uno spartiacque incolmabile fra la notte dello spirito del vero credente e la banalità della fede smarrita tipica di molte persone oggigiorno. Quando si prenda sul serio l’appello che Dio rivolge ogni giorno a ciascuno di noi nella sacra liturgia della parola, rinnovata chiamata che ebbe origine il giorno del nostro inconsapevole battesimo di fanciulli.
Quando si prenda sul serio tutto questo, allora, l’idea di restarsene neutrali ad attendere la prova dell’esistenza di Dio risulta inadeguata, sciocca. Eppure è proprio questa presunta lontananza del Creatore, questo suo sottrarsi alla presa del nostro supposto intelletto a generare il dubbio e l’incredulità. La notte dello spirito del Santo è ciò che purifica la fede rendendola assoluta, cioè spoglia di ogni volontà umana e perciò pronta ad accogliere Dio.
L’incredulità dell’uomo contemporaneo è invece propria di una fede che non è mai esistita, non l’esito di un lungo percorso, bensì la disillusione di chi non ha mai mosso un passo sulle vie della fede. Noi, non possiamo attendere che Dio si faccia avanti per liberarci dal peso di essere uomini, per liberarci dai dubbi, sgravandoci pure del fardello del dolore e del dovere d’amare. Perché queste sono le due porte che introducono l’uomo all’incontro con il divino.
Quando sentiamo che tutto è incerto e che la nostra vita e la nostra fede sembrano precipitare, allora, dobbiamo “difendere Dio”. Certo, in quel difendere, in realtà difendiamo noi stessi, la sensatezza del nostro mondo, il fondamento che rende la nostra vita dotata di senso. Pensiamo a Francesco d’Assisi. Egli, nel momento del dubbio, della crisi, del silenzio di Dio in realtà è interpellato dalla suprema Parola. Questa Parola, lo chiama sul proscenio della storia, della sua intima vicenda di uomo. Senza finzioni Francesco è strappato da ogni certezza e proprio per questo egli è il solo protagonista del dramma umano.
Dio rende in tal modo Francesco uomo denudato e solo e lo consegna al mondo, un mondo in cui tutte le scelte del santo vengono criticate, contraddette: la sua regola è troppo dura, impossibile da seguire; l’idea di povertà che egli persegue ai più pare un’utopia, l’assenza di norme della prima comunità francescana è denunciata come anarchica. Allora, Francesco si ritira, dalla vita, dai confratelli, persino dagli amici che in lui vedono un modello di santità. Francesco si rifugia in un eremo, in una grotta privato di ogni alimento spirituale e materiale. E grida. Urla la propria solitudine, il timore di essere pazzo, di aver fallito su ogni fronte. Al cielo che appare di pece il poverello di Assisi intima quasi un comando: “parlami….parlami….dammi un segno”! Dal desiderio ardente, dall’amore, dall’atroce solitudine, dalla disperazione, fiorisce la “prova”. Nelle mani di Francesco, non nella mente o nel cuore, nelle sue mani, sulla sua carne si apre un dono doloroso e misterioso. Sboccia un petalo di sangue e carne ferita. Francesco adesso assomiglia anche nel corpo al suo amato.
Perciò la tradizione vedrà in lui l’altro Cristo, perché in Francesco i tratti dell’amato sono i segni del dolore che altro non sono che i segni dell’amore. Il Dio cristiano è così umano è così carne, si mostra, si fa toccare, vedere, quando lo si ami. Altro che attesa della prova, altro che neutrale e presuntuoso distacco, altro che critica aperta di Dio e della chiesa perché l’uno e l’altra non corrispondono a quello che noi vorremmo.
Noi con la nostra voglia di dire come dovrebbero andare le cose e come dovremmo agire per dar loro il giusto corso. Solo che in tal modo, poi, dimentichiamo di mutare l’unica realtà sulla quale esercitiamo un qualche controllo: noi stessi. Francesco è coinvolto da Dio, non gioca, lo ha seguito in tutto sulla strada esigentissima del Vangelo. Eppure…ad un certo punto si volta, e non vede il Maestro, gira su se stesso e quasi cade stordito. Ma non si arrende egli difende la sua fede, il suo tutto, abbandonandosi.
Egli sa che difendere Dio è difendere tutto, come lo sanno i santi e i mistici che hanno conosciuto la notte dello spirito, l’ora del silenzio, l’ora in cui Dio deve essere difeso, l’ora del nulla che preme, l’ora della povertà umana più estrema in cui nasce la stella della salvezza. Per questo nel silenzio di Dio si rivela il dono più grande, elargito a coloro che hanno dato tutto e perciò tutto hanno ricevuto. Proprio per questo, proprio perché la perdita della fede è un dramma che getta nel non senso, sentire dalla voce di molti affermare: “io non credo più” suona come un atto blasfemo frutto della superficialità e della noncuranza.
In realtà può essere perso solo ciò che si è posseduto e può essere ritrovato solo ciò che magari per un istante è stato nostro. Siamo sinceri: molti uomini oggi fuggono da Dio per il timore di scrutare il possibile abisso che il dubbio può generare in loro. Chiamano questo atteggiamento incredulità o avversione verso la chiesa e i preti, ma è fin troppo evidente che si tratta di un pretesto. Per tutto questo Francesco mi appare come un eroe della vita, un eroe sincero, un uomo che non fugge dalla esigente chiamata di Cristo, ne davanti alla radicalità del suo temporaneo ritrarsi. E quasi provvidenzialmente soccorrono queste mie brevi riflessioni le parole di Etty Hillesum, la giovane ebrea morta in campo di concentramento ad Auschwitz: “ non voglio stare al sicuro, io voglio esserci …se Dio non mi aiuterà allora sarò io ad aiutare Dio. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi è il piccolo pezzo di Te in ognuno di noi, mio Dio. La vita è meravigliosamente buona. Se solo facciamo in modo che malgrado tutto Dio sia al sicuro nelle nostre mani”.