Coloro che in Italia auspicano la legalizzazione dell’eutanasia,
dogmaticamente interpretata come gesto di somma ed insindacabile autonomia da parte del paziente, da ormai qualche anno hanno iniziato a strumentalizzare l’articolo 32 della Costituzione Italiana facendone quasi una bandiera nonché un’antica legittimazione del testamento biologico. In particolare, ripetendo quasi ossessivamente che “
nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, taluni intendono deliberatamente occultare l’eutanasia omissiva, ossia la possibilità che, col pretesto di alleviare il dolore di qualcuno, si possa cagionarne la morte dalla sospensione di ogni minimo presidio terapeutico.
Lo stesso Ignazio Marino, ex Presidente della Commissione igiene e sanità del Senato, pur professandosi credente nonché pignolo lettore del Catechismo della Chiesa Cattolica, persiste nel circoscrivere la definizione dell’eutanasia solamente nella sua modalità “
attiva”, dimenticando ad esempio come la definì Giovanni Paolo II: “
Azione o omissione, che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (Evangelium Vitae, 25/03/95). Quanto all’articolo 32, vi sono alcune doverose precisazioni che meritano di essere svolte. Anzitutto, è bene ribadire che la lettura di un qualsivoglia articolo della Costituzione astratta dai principi che innervano l’intero testo è da considerarsi quanto meno fuorviante e incompleta.
Non si può leggere un articolo di un ordinamento giuridico o – peggio – una parte di un singolo articolo astrattamente, dimenticando o facendo finta di dimenticare l’ambiente valoriale nel quale le parole estrapolate vennero ideate. Quanti ieri sostenevano il diritto di Welby a morire e oggi si battono, senza voler sentir ragioni, per l’obbligatorietà - come prevedeva il ddl n. 687 del 27/06/06, di Ignazio Marino - del testamento biologico, non citano mai l’articolo 32 per intero, sebbene siano solamente tre righe. Come mai? Perché sanno che la prima parte dell’Articolo 32 parla della salute “come fondamentale diritto dell’individuo” e sanno, anche se non lo ammetteranno mai, che in Italia le vere priorità dei pazienti si chiamano assistenza sanitaria, efficienza delle strutture ospedaliere e alleanza terapeutica, non certo rifiuto delle terapie.
Ma torniamo all’articolo 32. Come si diceva poc’anzi, anche la più elementare ermeneutica giuridica ci suggerisce di interpretare l’articolo in parola alla luce del contesto nel quale venne pensato, redatto e in seguito approvato. Ebbene, l’articolo 32 è figlio di un momento storico, quello dell’immediato dopoguerra, nel quale - viste soprattutto le atroci e disumane sperimentazioni che ebbero luogo nei campi di concentramento nazisti - era urgente e doveroso offrire al cittadino strumenti giuridici tali da sottrarlo al rischio di divenire nuovamente cavia da laboratorio; di qui, il riconoscimento costituzionale dell’impossibilità di somministrare al paziente trattamenti terapeutici contro la sua volontà.
Si deve tuttavia ricordare che quello della libertà di autodeterminarsi, non è affatto l’unico principio costituzionale, anzi. Ve n’è uno forse più importante: quello dell’indisponibilità della vita, ovvero dell’impossibilità da parte di chicchessia di prestabilire il come e il quando della propria morte. Lo riconoscono senza difficoltà anche i più laici cultori del diritto, basti pensare all’ex Presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky il quale ebbe a riconoscere come il nostro ordinamento giuridico sia “
ispirato, nel suo complesso, al principio di indisponibilità della vita” (
Repubblica 19/03/2007). Un riconoscimento, questo di Zagrebelsky, del tutto doveroso. Infatti il nostro ordinamento considera il bene “
vita” bene indisponibile ex artt. 579 cp, 580 cp e 5 cc.
Lo stesso tentato suicidio, in realtà, non risulta sanzionato non già perché ritenuto legittimo - altrimenti perché sanzionare l’omicidio del consenziente e l’istigazione e aiuto al suicidio se togliersi la vita? -, bensì perché punire l’aspirante suicida non può soddisfare la funzione rieducativa. La legge italiana, dunque, è inequivocabilmente attraversata dall’idea che la vita umana sia un bene mai disponibile. Ora, al di là delle mere considerazioni giuridiche, il perché della citata indisponibilità - com’è noto - trova ragione, per i credenti, nella sacralità della vita.
Ma anche per chi non crede ci sono ottime ragioni per attenersi a codesto principio.
Scriveva l’agnostico Immanuel Kant: “
L’uomo non può disporre di sé stesso, poiché non è una cosa […] egli è una persona, il che differisce da una proprietà, perciò egli non è una cosa, di cui possa rivendicare il possesso, perché è impossibile essere assieme una cosa e una persona, facendo coincidere il proprietario con la proprietà. In base a ciò l’uomo non può disporre di sé stesso” (
Lezioni di etica, Laterza, Roma-Bari, 1971, p.189). L’impeccabile ragionamento di Kant ci porta a comprendere come in realtà sia del tutto contraddittoria quella visione esasperatamente individualista, che vorrebbe l’essere umano al contempo padrone e proprietà di sé stesso, dimenticando quel vitale tessuto di relazioni che compone e valorizza la persona.
Tutti aspetti, questi, che erano già stati colti, millenni fa, da Aristotele. Per lo Stagirita, infatti, il suicida - ovvero colui che più di tutti calpesta ed umilia il principio di indisponibilità della vita -, è una persona che commette ben due ingiustizie. La prima contro sé stesso, in quanto il suicidio rappresenta un affronto alla ragione e all’inclinazione naturale ad amare se stessi. La seconda contro la comunità entro la quale è cresciuto, e verso la quale è legato da un vincolo di riconoscenza e di mutuo aiuto (Cfr.
Etica nicomachea, III, 116 a).
Ridurre dunque ad una ingerenza tutta vaticana e clericale le motivazioni della intangibilità della vita umana, rappresenta una menzogna bella e buona, funzionale solo a quei laicisti che, oltre che essere anticattolici, sono, senza rendersene conto, irragionevoli e abbagliati da una visione della vita filantropica solo in apparenza. Infine, ci è utile ricordare un altro aspetto, spesso trascurato negli attuali dibattiti sul fine vita, e cioè le motivazioni che stanno veramente alla base della rivendicazione del diritto di porre fine alla propria vita.
E’ difatti sperimentalmente dimostrato che laddove sussista una consolidata alleanza terapeutica supportata da terapie all’avanguardia, la richiesta di morte riguarda quasi esclusivamente persone che vivono uno stato di depressione. Diffidiamo quindi di chi,
strumentalizzando in maniera assai cinica il dolore di chi soffre veramente, tenta di farci credere che le urgenze non procrastinabili del sistema sanitario italiano siano il testamento biologico o la richiesta di morire.
La vera sfida è quella di garantire a ciascun paziente un’assistenza adatta tanto sul piano terapeutico quanto su quello umano. Solo così si potrà arrestare il diffondersi di disperate richieste di morte, tutelando la dignità di ciascun paziente e allontanandolo dalla tentazione di violare l’indisponibilità della vita e dall’illusione che la morte, a certe condizioni, possa essere una via d’uscita.