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La notizia è di quelle che non dovrebbero passare sotto silenzio: dopo che il ministro ha dato il via libera, centinaia e centinaia di professori nel paese hanno deciso di utilizzare l’arma estrema del cinque in condotta, per lanciare un segnale. Agli alunni, ai genitori, alla società tutta intera.
Un grido che può essere tradotto così: noi insegniamo italiano, matematica, inglese ecc., ma quello che dobbiamo dire non riguarda anzitutto le nostre materie. Riguarda la possibilità stessa di fare scuola, senza doverci tramutare in gendarmi dell’ordine e della disciplina. Senza che la lezione si trasformi nel continuo e noiosissimo richiamare continuamente all’ordine. Perché non è possibile spiegare Dante, discuterne in classe, rendere viva la storia, la letteratura, ogni singola disciplina, se non c’è tutto quello che viene prima: la capacità dei ragazzi di stare alle regole, di comportarsi in un certo modo, di incuriosirsi e di entusiasmarsi. Bisogna, cari genitori, cari alunni, cari tutti, che si torni ai fondamentali. Come quando si impara a giocare a calcio: prima della partita, prima di potersi godere gli schemi di gioco, i triangoli spettacolari, gli affondi sulla fascia, le semirovesciate che mandano il pubblico in visibilio, occorre imparare a tenere la palla tra i piedi, passo dopo passo, correndo tra i birilli e palleggiando con pazienza, ore ed ore.
Così è per la scuola. Basta, alt, stop: devono finire tante cose che non funzionano, purtroppo. Certamente, perché questo avvenga, sono necessarie anzitutto regole chiare. Per cominciare chi si comporta in un certo modo, in futuro, deve conoscere le conseguenze del suo agire: di qui appunto il ritorno agli esami a settembre e la maggior forza conferita al voto in condotta. Si tratta di un passo essenziale, ma non basta: la scuola, da sola, può fare poco. Questo mi sembra un punto centrale. Le regole, da sole, sono lettera morta. Possono al massimo garantire la pace dei cimiteri, la tranquillità dei dormitori.
Queste regole devono essere conosciute nel loro significato profondo, devono essere il più possibile parte della storia di ogni alunno. Devono essere state digerite e vissute anzitutto in famiglia. Per troppo tempo una certa cultura ha voluto far credere che si potesse delegare tutto alla scuola; addirittura che la scuola fosse più adatta della famiglia a svolgere il ruolo di agenzia educativa. In nome di questa visione si è addirittura finiti per affermare che anche l’educazione affettiva dei ragazzi deve passare, anzitutto, da professori, da tecnici, da “esperti”, gestiti dalle Asl o da altre realtà esterne alla famiglia. In un mondo che si chiede addirittura se i bambini abbiano ancora “bisogno” di due genitori, di un padre o di una madre; in un mondo che vuole spesso dimenticare la necessità, per i giovani, di crescere amati, nella certezza e nella solidità dei primi e fondamentali affetti, il boom dei cinque in condotta vuole semplicemente ricordare la realtà: prima che persone istruite, occorre costruire persone vere.
Occorre qualcuno che sostenga il bambino quando gattona, che accompagni i suoi primi passi, che continui a fiancheggiarlo quando poi si pone le prime domande e si apre al mondo, come un novello Adamo. Occorrono più stabilità affettiva, meno televisione, meno internet, meno surrogati, meno parcheggi… La serenità e la condivisione imparate in famiglia, infatti, aprono il giovane alla tranquillità dei rapporti, al rispetto degli insegnati e dei compagni, alla curiosità verso la realtà che lo circonda e da cui egli si aspetta qualcosa di buono e di bello. A quel punto spetta a noi insegnati, contribuire a far nascere un seme che non è stato abbandonato, senz’acqua e senza cura, per lunghi anni; spetta a noi prendere per mano i ragazzi, e portarli nella bellezza delle discipline umanistiche e scientifiche.
Ma il guaio, oggi, è che, spesso, è difficile prenderle, afferrarle, molte mani; è difficile trovare un punto di appoggio, per fare leva: nella società sempre più liquida, tutto perde consistenza. Le passioni, gli interessi, l’ entusiasmo, la capacità di sacrificio, in una parola: le persone. Avvenire, 2 marzo 2010